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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV
AI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

6 marzo 1916

 

 

Al Vescovo che, secondo un lodevole costume, assiste nella sua cattedrale alla prima predica della Quaresima, si presenta il sacro oratore per chiedere la benedizione, ed il Vescovo la imparte con le parole che gli pone sul labbro la Chiesa: «Dominus sit in corde tuo et in labiis tuis, ut digne, competenter et fructuose annunties Evangelium suum ».

A Noi non sarà dato di assistere alle prediche che nella imminente Quaresima voi, o dilettissimi figli, farete in quest’Alma Città. Ma appunto per ciò voi avete voluto presentarvi ora al Vescovo di Roma, quasi per domandarne anticipatamente la benedizione; e Noi tenteremmo invano di esprimere tutta la soddisfazione, che proviamo nell’accingerCi a secondare la vostra domanda. Imperocché non solo Ci è grato di dare pubblico attestato di benevolenza a voi, che dal Nostro Cardinale Vicario siete stati scelti od approvati per predicare in Roma, ma desideriamo altresì che la Nostra benedizione possa rendere fecondo di grazie il ministero che voi state per intraprendere in favore del popolo romano, a Noi stretto da vincoli speciali. Quale però dovrà essere la formula della Nostra benedizione? Non altra che quella usata dal Vescovo nel benedire il predicatore della Quaresima nella sua cattedrale; sicché anche Noi vogliamo dire con la Chiesa sopra ciascuno di voi: «Dominus sit in corde tuo et in labiis: tuis, ut digne, competenter et fructuose annunties Evangelium suum ».

È facile intendere che questa forma di benedizione contiene ad un tempo un’esortazione ed un augurio: ma Noi vogliamo insistere principalmente sull’augurio, amando sperare che l’esortazione sia per voi superflua. Si comincia infatti coll’augurare che il Signore sia nel cuore del sacerdote destinato a bandire il Santo Vangelo: «Dominus sit in corde tuo ». Se la benedizione non fosse indirizzata a chi può vantare il pubblico attestato di stima avuto dai propri Superiori mercé il delicato incarico di predicare al popolo la divina parola, in questa prima parte della benedizione si potrebbe scorgere un ammonimento, fatto al predicatore, di dover egli rivestire la virtù di Gesù Cristo prima di inculcarne ad altri la professione. Noi vi scorgiamo l’augurio che i sacerdoti incaricati di predicare in Roma nella prossima Quaresima non solo siano, ma anche appariscano, forniti della virtù propria del loro stato; così che di ciascuno si debba dire: « Sacerdos alter Christus ». Si può anche interpretare come augurio, che la grazia, del Signore si accresca ognora più nel sacerdote a cui è indirizzata la benedizione, perché non a caso si dice che il Signore deve essere accolto « nel cuore » del sacerdote: «Dominus sit in corde tuo ». La parola « cuore » si può adoperare tanto per indicare l’anima con le notissime sue tre potenze, quanto per esprimere il principio di tutte le operazioni dell’uomo: nell’un caso e nell’altro è evidente l’augurio che il predicatore sia tutto cosa di Dio, in guisa da meritare il saluto dell’Apostolo delle genti: « tu autem homo Dei ». Infatti se in tutte le potenze dell’anima sua ha stanza e regno il Signore, in conformità della prima interpretazione dell’augurio: «Dominus sit in corde tuo », la memoria del predicatore non può non essere occupata che dei benefìci di Dio, l’intelletto di lui non può perdere di vista la divina Legge, e la sua volontà ad altro non può aspirare che a rafforzare in sé, e ad estendere in altri, il regno del Signore; ma se la memoria, l’intelletto e la volontà di un predicatore non sono occupate che di Dio, chi non dira che quel predicatore è in tutto cosa di Dio, « homo Dei? ». Se poi si preferisca la seconda interpretazione, per la quale nel cuore viene indicato il principio di tutte le operazioni dell’uomo, è agevole comprendere che al predicatore si dice: «Dominus sit in corde tuo » perché la grazia è elemento tanto necessario alla vita dello spirito, quanto è necessario il cuore a quella del corpo: quando il cuore cessa di battere, cessa anche la vita dell’uomo; del pari se venisse meno la grazia, cercherebbesi invano la vita dell’anima. Di qui apparisce ampio ed esteso il significato della prima parte della benedizione: «Dominus sit in corde tuo ».

Potrebbe alcuno, e non a torto, osservare che l’augurio in essa compreso conviene a tutti i fedeli, perché certamente il Vescovo desidera che il Signore abiti con la sua santa grazia nell’anima di tutti i suoi fedeli, o che la grazia di Dio sia principio di tutte le loro operazioni. Ma non avete posto mente all’inciso, « et in labiis tuis », che viene a completare la prima parte della benedizione? Dopo l’augurio di essere « cosa di Dio », il sacerdote benedetto dal Vescovo avrebbe dovuto apparire « homo Dei » in tutti i suoi atti, in tutte le sue movenze; ma importava considerarlo nell’esercizio concreto del suo ufficio di predicatore, ed ecco l’esortazione, ecco l’augurio che « il Signore sia anche sulle labbra di lui: Dominus sit et in labiis tuis ».

Non fa mestieri spiegare che « Dio è sulle nostre labbra » quando amiamo di parlare spesso di lui, quando ne zeliamo la gloria, quando ne propugniamo i diritti, quando gli accresciamo adoratori, e soprattutto quando inculchiamo l’osservanza della legge da Lui emanata. Piuttosto è da osservare che l’augurio « Dominus sit… in labiis tuis » può avere un doppio significato, positivo l’uno, e l’altro negativo. Nulla infatti è più naturale che al predicatore si rivolga l’augurio non solo di predicare Dio, ma anche di non predicare altri che Dio. Per voi, o dilettissimi figli, vogliamo credere superflua l’esortazione a non predicare altri che Dio. Certamente voi condannate coloro che predicano se stessi; estendete pure la vostra condanna a coloro che portano sul pulpito argomenti non strettamente religiosi, o che vi trattano materie profane; anzi una tale condanna si dovrebbe estendere anche a quei predicatori, i quali non arrivassero al riprovevole eccesso di trattare direttamente argomenti profani, ma nondimeno non sapessero astenersi, nello svolgere il loro tema, da qualche così aperta allusione a cose profane, che fosse capace di impressionare gli uditori più che il tema stesso. Un tale abuso verrebbe a rinnovare nella Chiesa quelle infauste divisioni, che San Paolo deplorava in Corinto, quando diceva essergli stato riferito il linguaggio di alcuni tra i primi cristiani: « io sto con Paolo, io con Apollo, io con Cefa ed io con Cristo » (1 Cor. 1, 12). Ah non è impossibile, specialmente ai dì nostri, che qualcuno vada alla predica per scoprire a qual partito politico appartiene il predicatore: deh! voi fate in modo che non apparisca essere voi né di Paolo, né di Apollo, né di Cefa, ma essere soltanto di Gesù Cristo.

In questo modo, o dilettissimi, la parola «Dominus sit… in labiis tuis » non sarà stata pronunziata invano per voi.

Ma affinché risulti ognor meglio l’efficacia di questa parola, è d’uopo porre mente allo scopo per il quale al predicatore viene impartita la benedizione. Tale scopo è dichiarato dalla seconda parte della formula usata dal Vescovo: « ut digne, competenter et fructuose annunties Evangelium suum ».

Poc’anzi abbiamo detto che, mercé l’inciso « et in labiis tuis », il Vescovo considera il sacerdote non genericamente, ma come incaricato dell’officio di predicatore; ora possiamo aggiungere che, con le ulteriori parole della benedizione, il Vescovo considera il sacerdote nell’atto di recarsi a predicare. Per costui ha formulato l’augurio «Dominus sit in corde tuo et in labiis tuis », ed ora ne dichiara il motivo: « affinché annunzi nel dovuto modo il vangelo di Dio », « ut digne, competenter et fructuose annunties Evangelium suum ».

A niuno sfugge la particolare sollecitudine che ha la Chiesa nel precisare il Vangelo che dev’essere annunziato dal predicatore a cui il Vescovo imparte la benedizione, imperocché non dice semplicemente « annunties Evangelium », ma specifica « Evangelium suum ». Nessun ammonimento può essere più opportuno di questo, per indurre il predicatore a far buona scelta di temi; nessun criterio può essere più sicuro di questo, per fargli comprendere se ha compiuto o negletto il suo dovere. È questa veramente « parola di Dio »? deve domandare a se stesso, quando prepara la predica; ho io veramente annunziato « la parola di Dio »? deve pur chiedere a se medesimo, quando, dopo la predica, torna al silenzio della sua cella.

La risposta a tali domande sarà data al predicatore, oltre che dalla propria coscienza, dal raccoglimento con cui i fedeli avranno ascoltato la sua predica, e anche meglio dai frutti di conversione che ne avrà raccolto. Degno di compassione sarebbe invece quel predicatore il quale, durante la predica, non compunzione ma divagamenti, non lagrime ma sorrisi scorgesse sul volto dei suoi uditori, e, dopo la predica, vedesse gli ascoltatori precipitarsi alla porta, senza pur riflettere un istante alle cose udite. E che dire di quel predicatore, il quale alle citazioni della Sacra Scrittura, che è vera « parola di Dio », od ai commenti dei Santi Padri, che ne sono autorevoli interpreti, avesse preferita la citazione di autori profani, forse di qualche pregio letterario ma di niuna fama religiosa o morale? Ah! come ingrata dovrebbe riuscire all’orecchio di costui l’eco della parola onde il Vescovo l’aveva pur ammonito « di annunziare il vangelo di Dio! ». Non possiamo dire purtroppo di parlare solo ipoteticamente, perché anche nell’anno testé decorso dovemmo più volte lamentare che qualche predicatore avesse dimenticato di portare sul pulpito, sempre e sola, la parola di Dio. Ma ci affrettiamo a soggiungere che di tale dimenticanza non crediamo capaci voi, dilettissimi figli, che dalla competente autorità siete scelti a predicatori della Quaresima in quest’alma città di Roma. Basterebbe d’altronde a dissipare ogni timore la certezza che voi abbiate posta particolare attenzione ai caratteri, che dalla stessa formula di benedizione usata dal Vescovo sono indicati proprii della sacra predicazione. Il Vescovo infatti non è pago di augurare che « il Signore sia nel cuore e sulle labbra del predicatore, affinché questi annunzi il vangelo di Dio », ma esplicitamente ne dichiara il modo, aggiungendo « affinché lo annunzi degnamente, con competenza e con frutto: ut digne competenter et fructuose annunties evangelium suum ».

Vorremmo dire partitamente di ciascuno dei tre caratteri della sacra predicazione, significati da quei tre avverbi « digne, competenter et fructuose », che pronunzia il Vescovo nell’indicare il modo onde dev’essere annunziato il Santo Vangelo, perché voi sapete che sono gli avverbi che caratterizzano i verbi. Ma nessuno ignora che dei tre avverbi suddetti il più importante è l’ultimo; anzi i due primi sembrano ordinati al terzo, in quanto che la predicazione non può riuscire fruttuosa se non è fatta in maniera conveniente e con la dovuta competenza; e, per contrario, quanto più degna ne sarà la maniera, e quanto più autorevole ne apparirà l’incarico, tanto più fruttuosa dovrà riuscire la sacra predicazione. Tralasciamo perciò di ricordare che per predicare degnamente, « ut digne… annunties Evangelium suum », è necessario non solo trattare argomenti di vero interesse religioso, come già abbiamo detto e ripetuto poc’anzi, ma è necessario altresì trattarli con castigatezza di linguaggio, con proprietà di forma, con chiarezza di esposizione, e soprattutto con lucidità di ordine, senza dare una parte troppo grande alla mozione degli affetti, affinché un passeggero entusiasmo, eccitato forse dalla brillante forma del dire, non venga a prendere il luogo della seria riflessione, madre dei buoni propositi. Tralasciamo del pari di ricordare che il secondo avverbio « competenter », « ut… competenter… annunties Evangelium suum », è ordinato a porre in rilievo la sublimità dell’officio affidato al predicatore. Imperocché noi crediamo che almeno voi, o dilettissimi figli, teniate presente che la vostra « competenza a predicare » viene da Dio. Voi siete altrettanti ambasciatori mandati al popolo di Roma; le credenziali della vostra ambasceria possono essere state firmate dal rappresentante di Gesù Cristo, ma donde traggono tutta la loro forza, se non dall’essere date « in nome di Gesù Cristo medesimo »? Ora se, trovandovi sul pulpito, terrete vivo il ricordo che in quell’atto di predicare rappresentate Gesù Cristo, non è possibile che vogliate accogliere pensieri, pronunziare parole o avanzare proposte, le quali debbano poi essere sconfessate dal Sovrano che vi ha fatto suoi ambasciatori presso il popolo. Portiamo invece speciale attenzione all’ultimo avverbio che dichiara il carattere più importante della sacra predicazione: « ut … fructuose annunties Evangelium suum ». E qui non vogliamo celarvi, o dilettissimi, che della inserzione di questo terzo avverbio nella formula di benedizione ai predicatori Noi avemmo notizia solo quando Noi stessi dovemmo pronunziare quella formula, il primo mercoledì delle Ceneri che Ci trovò in Bologna al governo della Nostra indimenticabile sede. Ma alla confessione della Nostra prolungata ignoranza vada congiunta l’espressione del gradimento che allora provammo, quando vedemmo opportunamente ricordato il fine precipuo della sacra predicazione.

A raggiungere un cotal fine sarà d’uopo che il predicatore sia, e si mostri, principalmente sollecito della gloria di Dio e della salute delle anime. Non torneremo qui a dire che deve perciò parlare di sé il meno possibile, e che da ogni suo discorso deve eliminare tutto ciò che la sua coscienza non lo assicuri dover giovare al profitto spirituale dei suoi ascoltatori; ma non vogliamo omettere di ricordare che, a rendere fruttuosa la predicazione, il sacro oratore deve adattare il suo linguaggio alle condizioni intellettuali dei suoi uditori. Una tesi di filosofia, anche se provata coi più rigorosi sillogismi, e una dissertazione storica, anche se confortata coi più sicuri documenti, non solo sarebbero inutili ad un uditorio di mediocre cultura, ma forse indisporrebbero siffattamente gli animi degli ascoltatori, da renderli incapaci a trarre profitto da quelle stesse più volgari osservazioni che, in altri casi, sarebbero state feconde di molti e buoni frutti.

E riguardo agli uditori più scelti, ossia formati da persone di preclara intelligenza e nutrite di buoni studi, non sarà inutile avvertire che il frutto a cui deve mirare il sacro oratore non è il diletto intellettuale, non la compiacenza della fantasia, non la soddisfazione degli orecchi. Sarebbe quello il linguaggio dei maestri che San Paolo fin dai suoi tempi diceva: « Prurientes auribus », e dei quali doveva soggiungere: « A veritate quidem auditum avertent, ad fabulas autem convertentur » (II Tim IV, 3). Epperò il frutto inteso dal sacro oratore dev’essere sempre, ed in ogni caso, la conversione del peccatore o il perfezionamento del giusto. Solo a questo mira il Vescovo quando dice di benedire il predicatore « ut… fructuose annunties Evangelium suum ».

E dovremo Noi aggiungere che solo a questo, e non ad altro frutto, miriamo Noi nel benedire i quaresimalisti di Roma? Ce ne dispensa la presenza dei parroci urbani, i quali sono i predicatori abituali, vorremmo dire « gli annualisti » nelle loro chiese, ed essi sanno che Noi vogliamo non sia predicato al popolo altro che Gesù Cristo: « Iesum Christum praedicamus, et hunc crucifixum ».

Leviamo dunque le mani sopra i parroci di Roma e sopra ciascuno dei dilettissimi figli, che stanno per intraprendere la predicazione quadragesimale in quest’Alma Città, e a ciascuno di essi diciamo con le parole della Chiesa: «Dominus sit in corde tuo et in labiis tuis, ut digne, competenter et fructuose annunties Evangelium suum ». E questa benedizione sia resa efficace dalla potenza di quel Dio che ci ha creati, dalla sapienza di quel Dio che ci ha redenti, dall’amore di quel Dio che con la sua grazia ci ha santificati e ci vuole tutti salvi. « In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen ».

 

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