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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV
AI SACRI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

19 febbraio 1917

 

 

Ai dilettisimi Nostri figli, che nella imminente Quaresima dovranno annunziare la divina parola ai fedeli di Roma, Noi non facciamo torto ricordando che, nell’esercizio dell’importante ministero ad essi affidato, devono prendere a guida e modello l’Apostolo San Paolo. Camminando sulle orme del Dottore delle Genti, essi non potranno fallire a gloriosa meta, e, come San Paolo, fatti « vasi di elezione », anch’essi porteranno il nome di Gesù « dinanzi alle genti, ai re e ai figliuoli d’Israele » (Act., IX, 15).

Ma perché ai predicatori di Roma, quasi alla vigilia del giorno in cui dovranno intraprendere l’importante loro ministero in quest’Alma Città, perché ricordiamo che devono avere a guida e modello San Paolo? Non per altra ragione, o dilettissimi, se non perché desideriamo che, al termine della vostra predicazione in Roma, voi possiate ripetere con ogni verità ciò che San Paolo diceva dopo di aver predicato ai fedeli di Corinto: « Il mio parlare e la mia predicazione non furono nelle persuasive parole dell’umana sapienza, ma nella manifestazione di spirito e di virtù; Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis » (I Cor., II, 4).

Da Atene il grande Apostolo era passato a Corinto, e per lo spazio di diciotto mesi aveva predicato al « popolo grande », che Iddio aveagli detto di avere in quella città, « quoniam populus est mihi multus in hac civitate » (Act., XVIII, 10); ma, essendosi poi recato ad Efeso, avea quivi ricevuto notizia di alcune divisioni suscitate nella chiesa di Corinto da falsi apostoli, e di vari disordini in essa introdotti dopo la sua partenza. A scagionarne se stesso, San Paolo giudicò opportuno dichiarare quale fosse stata la sua predicazione nell’Acaia, e fu in quell’occasione che, riferendosi appunto al ministero da lui compiuto in Corinto, scrisse le già citate parole: « Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapentiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ». È facile comprendere che con queste parole San Paolo indicava, per escluderlo, un indebito modo di predicare « non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », e significava insieme, per dirla da lui tenuta, una conveniente maniera di ammaestrare il popolo « in ostensione spiritus et virtutis ». Ma se con queste parole il Dottore delle Genti dimostrava non imputabili alla sua predicazione i disordini suscitati in Corinto dopo la sua partenza dall’Acaia, riesce a tutti manifesto che Noi, augurando ai predicatori di Roma di poter ripetere, al termine della loro predicazione, le parole stesse di San Paolo, li scagioniamo fin d’ora da ogni responsabilità in tutto ciò che di meno giusto e di men retto potrà compiersi in Roma dopo la loro partenza da quest’Alma Città.

Voi, o dilettissimi figli, vorreste esserCi grati di avere addotto l’esempio di San Paolo per liberarvi previamente dal sofisma « post hoc, ergo propter hoc ». Ma Noi non sapremmo esimerCi dall’esporvi tutto il Nostro pensiero. Scrivendo da Efeso ai fedeli di Corinto, l’Apostolo faceva appello alla predicazione da lui tenuta in quella nobilissima città dell’Acaia, non solo per escludere che i disordini posteriormente suscitati potessero mai attribuirsi a quella predicazione, ma anche per dimostrare che dalla predicazione stessa erano stati anticipatamente condannati. Allo stesso modo, o dilettissimi, Noi vorremmo che di qualunque delitto o disordine che per avventura si dovesse lamentare in Roma dopo la prossima Pasqua, si potesse sempre affermare essere stato previamente sfolgorato dai predicatori della Quaresima del 1917. Il perché Ci sembra non dover riuscire inutile un più attento esame delle surriferite parole di San Paolo. Noi auguriamo che voi possiate farle vostre al termine della predicazione quaresimale, che ora state per intraprendere: nulla quindi è più naturale che la sollecitudine Nostra di farvene bene apprendere e meglio gustare il senso.

Cominciamo pertanto coll’osservare che, non senza motivo, l’Apostolo ha distinto le due forme di linguaggio da lui tenuto in Corinto, perché altra cosa è discorrere in privato, « sermo meus », e altra predicare in pubblico, « et praedicatio mea ». Ma, poiché nell’una e nell’altra San Paolo escluse l’indebito modo e dichiarò la maniera conveniente da lui tenuta, Noi dobbiamo rilevarne che il predicatore è anzitutto avvertito di non dover mirare solo « a far bene sul pulpito », ma anche ad osservare un lodevole contegno nel tratto familiare, che nei giorni della quadragesimale predicazione gli avvenga di dover usare con ecclesiastici e laici, con giovani e vecchi, con poveri e ricchi, con uomini e donne. San Francesco di Sales diceva che il vero carattere del Vescovo è conosciuto solo dai più intimi familiari di lui, e Noi vorremmo che lo zelo dei predicatori di Roma apparisse non solo negli elaborati discorsi che pronunzieranno dai pulpiti delle Nostre chiese, ma altresì nella gravità della loro condotta, nella loro pietà e devozione al santo altare, e specialmente nella carità e nella pazienza, onde li speriamo pronti ad accogliere chiunque faccia appello al loro ministero. Senza queste disposizioni dell’animo, non potrebbe appropriarsi la prima parola di S. Paolo « sermo meus » nemmeno chi, nel pubblico esercizio del sacro ministero, si accostasse in tal guisa all’Apostolo da poter fare sue le altre parole di lui.

Ma nel sacro oratore i fedeli considerano principalmente la missione pubblica, ossia l’esterno esercizio del ministero a lui affidato. Epperò, senza insistere ulteriormente sulla condotta privata, che voi dovrete osservare e che Noi non dubitiamo sarà in tutti lodevolissima, volgiamo piuttosto lo sguardo alla predicazione pubblica di San Paolo, per argomentarne quale dovrà essere la vostra.

Già abbiamo detto che l’Apostolo dichiara ad un tempo « ciò che non fu » e « ciò che invece è realmente stata » la sua predicazione in Corinto. Laonde, chiunque voglia conoscere l’indole vera della predicazione di San Paolo, deve porre mente così a ciò che l’Apostolo ne esclude come a ciò che egli addita in essa.

« Praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », ecco « ciò che non fu» la predicazione di San Paolo ai Corinti. Si ingannerebbe chi credesse che l’Apostolo abbia voluto con queste parole significare disprezzo della scienza profana o della profana cultura, perché egli stesso in altra occasione, scrivendo ai medesimi fedeli di Corinto, ebbe a dire che, sebbene apparisse « rozzo nel parlare, non lo era però nella scienza; etsi imperitus sermone, sed non scientia » (II Cor., XI, 6). Ma, se non intendeva disprezzare la scienza profana, San Paolo voleva significare che su questa non aveva poggiato il suo insegnamento. Aveva egli a cuore di poter dire che la fede da lui istillata a quei di Corinto dovea posarsi sulla potenza di Dio in opposizione alla sapienza dell’uomo: « ut fides vestra non sit in sapientia hominum, sed in virtute Dei » (loc. cit., v. 5). Si comprende dunque agevolmente che, quando diceva « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », San Paolo escludeva gli argomenti dedotti dalle scienze profane ed escludeva altresì ogni forma di linguaggio, che fosse stata propria di un espositore di cose profane.

È d’uopo infatti non perdere di vista il nesso logico del discorso dell’Apostolo. Volendo dimostrare che non si doveano a lui attribuire i disordini che si erano lamentati a Corinto, egli aveva cominciato col rammentare che, quando si era colà recato, non si era punto presentato « con sublimità di ragionamento o di sapienza; veni non in sublimitate sermonis aut sapientiae ». Questa distinzione, fatta dall’Apostolo tra « la sublimità del ragionamento e quello della sapienza », Ci permette di dire che al memore sguardo di lui si presentavano in quel momento e la materia e la forma della sua predicazione, ed egli poteva affermare che né la forma erane stata sublime, « non in sublimitate sermonis », né ricercata o astrusa ne era stata la materia, « non in sublimitate sapientiae ». E che accennasse a sapienza profana quando escludeva di essersi presentato « in sublimitate… sapientiae », si deduce anche bene dalle parole che San Paolo soggiungeva: « Non enim iudicavi me scire aliquid inter vos nisi Iesum Christum et hunc crucifixum ». Se nel predicare ai fedeli di Corinto avea mostrato di non sapere altra cosa se non Gesù Cristo, ben chiaro apparisce che nessuno sfoggio dovette egli fare delle sue cognizioni di scienze profane. Anzi la cura di affermare che in mezzo ai Corinti si era diportato non solo come se null’altro avesse saputo che Gesù Cristo, ma ancora come se in Gesù Cristo null’altro avesse scorto che l’obbrobrio della croce, senza punto considerare i tesori di sapienza e di scienza infinita in Lui racchiusi, « nisi Iesum Christum et hunc crucifixum », deve persuaderci ognor meglio che, non le deduzioni della scienza del secolo, ma i princìpi della sapienza del Vangelo dovette scegliere l’Apostolo ad argomento della sua predicazione ai fedeli di Corinto. Qual meraviglia pertanto che ad esprimere il disegno dell’opera sua San Paolo cominciasse coll’escluderne i portati dell’umana sapienza: « Sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »?

La meraviglia si avrebbe se i predicatori dell’età nostra mettessero in oblio un così autorevole esempio. Il fine da essi inteso non è diverso da quello a cui mirava l’Apostolo nell’evangelizzare il regno di Gesù Cristo; ma se essi pretendessero raggiungere un tal fine, sia coll’annunziare o difendere tesi profane, sia col portare sul pulpito vane critiche di storia o inutili disquisizioni di politica e di diritto pubblico o privato, Noi non sapremmo astenerCi dal ricordar loro che la predicazione di Colui che essi devono tenere a modello non fu « in persuasibilibus humanae sapientiae verbis ». È inutile dire che nel Nostro ricordo sarebbe implicita la più aperta disapprovazione della loro audacia. E non isfuggirebbero la Nostra disapprovazione nemmeno coloro che, dopo di avere scelto convenientemente i temi delle loro prediche, si illudessero poi di provarli con argomenti profani a preferenza delle ragioni che, come da ricche miniere, potrebbero dedurre dai Libri santi e dalle dotte lezioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Anche a costoro Noi vorremmo ricordare che San Paolo non si è presentato ai fedeli di Corinto « in sublimitate… sapientiae ».

L’Apostolo non si presentò nemmeno « in sublimitate sermonis »; epperò alieno dall’esempio di San Paolo, anzi contrario ad esso, Noi vorremmo dire il linguaggio di chi, per soverchia ricercatezza di parole o per troppo eccelsi voli di fantasia, non permettesse al volgo di accogliere i suoi insegnamenti. Nelle parole di San Paolo: « in sublimitate sermonis », forse è indicata anche la forma del dire o la maniera del porgere, e poiché il gran Maestro dei predicatori dice di non essersi presentato « in sublimitate sermonis », chi potrà tollerare che i predicatori dell’epoca nostra usurpino ai tribuni la foga del dire e si mostrino così accesi nel volto, così irruenti nella parola, così smaniosi nel gesto da degradarne le scene del teatro? A voi, dilettissimi figli, non vogliamo celare la Nostra amarezza: il Nostro cuore è stato trafitto dalla voce di chi, non ha guari, Ci diceva che alcuni predicatori ai dì nostri non rifuggono da queste forme teatrali perché il popolo sembra gradirle. Fosse anche vero che tale apparisse ai dì nostri il gusto di molti fra quei che vanno a predica, i sacri oratori, che tengono San Paolo a modello, lungi dal secondare un tal gusto, dovrebbero condannare chiunque ha contribuito a corromperlo in così orribile guisa. E non vi ravvisano essi le « persuasive della umana sapienza »? Non ricordano che San Paolo ha detto: « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »? Ricordatelo almeno voi, o dilettissimi, affinché la vostra predicazione in Roma non differisca da quella dell’Apostolo: non sia ciò che la predicazione di San Paolo non fu.

Ma in un quadro non basta l’assenza di macchie, è necessario altresì il positivo concorso di bei lineamenti: epperò a poter bene apprezzare la predicazione di San Paolo, dopo di aver riconosciuto ciò che essa non fu, è d’uopo studiare anche ciò che essa realmente è stata. Noi avventuratissimi! lo abbiamo appreso dalla bocca dello stesso Dottor delle Genti, il quale, dopo di aver detto di non aver predicato ai Corinti con le persuasive parole della umana sapienza, ha soggiunto di averlo bensì fatto « nella manifestazione di spirito e di virtù; sed in ostensione spiritus et virtutis». Queste parole, al dir di San Tommaso, hanno certamente il senso di affermare che ai credenti nella predicazione di San Paolo era dato lo Spirito Santo, appunto come gli Atti degli Apostoli ricordano di coloro che ascoltavano le parole di San Pietro: « adhuc loquente Petro verba haec, cecidit Spiritus Sanctus super omnes qui audiebant verbum » (Act., X, 44). E del pari può dirsi con lo stesso Angelico Dottore che la predicazione di San Paolo era « manifestazione di virtù », perché non di rado era seguita da miracoli (Marc., XVI, 20), in adempimento delle divine promesse: «Domino cooperante et sermonem confirmante, sequentibus signis » (S. Thom., Comm. in Ep. S. Pauli). Ma richiamate, o dilettissimi, un’altra volta il pensiero allo scopo a cui mirava direttamente San Paolo quando indirizzava la sua prima lettera ai fedeli di Corinto. Voi non indugerete a riconoscere che in bocca all’Apostolo il più forte argomento per condannare i disordini introdotti a Corinto doveva essere l’opposizione, diciamo meglio, la contraddizione di essi agli insegnamenti da lui dati nei diciotto mesi della sua dimora in Acaia. Quei disordini costituivano un’aperta violazione delle leggi da lui proclamate ed imposte, per divina missione, ai novelli seguaci della religione cristiana; erano un pratico disprezzo di quelle virtù, che egli aveva additato prezioso e necessario corredo dei discepoli di Gesù Cristo. Nessuna cura perciò avrebbe potuto essere più naturale, nessun ammonimento più opportuno, che il richiamare i fedeli di Corinto allo spirito cristiano da lui inculcato e alla cristiana virtù da lui raccomandata nei giorni della sua predicazione in mezzo ad essi: epperò « praedicatio mea … in ostensione spiritus et virtutis », ecco la parola di San Paolo che, succedendo a quella onde siamo ammaestrati su ciò che la predicazione di lui non fu, ci insegna pure ciò che essa realmente è stata.

Credereste voi però che la predicazione di San Paolo sia stata « manifestazione di spirito cristiano e di cristiana virtù » solo per i primi fedeli di Corinto? Ah! voi non ignorate, dilettissimi figli, che tale dev’essere anche la predicazione di tutti coloro che aspirano a camminare dietro le orme del Dottor delle Genti. Riflettete perciò che la vostra predicazione in quest’Alma Città non sarà simile a quella di Colui che avete scelto a vostra guida e modello, se anch’essa non sarà « in ostensione spritus et virtutis ». Lo spirito del cristiano consiste nel riconoscere Iddio come nostro Padrone assoluto e come nostro Sovrano Legislatore. A questo spirito si informano la fedeltà del servo, la sottomissione e l’obbedienza del suddito. Oh! intendete dunque bene, dilettissimi figli, che nell’imminente Quaresima dovrete anzitutto difendere i diritti di Dio sulle creature, non allontanandone il pensiero se non per insistere sui doveri delle creature stesse verso Iddio. Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio. I sacri oratori che, ad imitazione di San Paolo, vogliano rinnovata nel mondo la manifestazione dello spirito cristiano « in ostensione spiritus », devono dunque esortare i fedeli a ricevere dalle mani di Dio così le private sventure come i pubblici flagelli, senza punto mormorare contro la Divina Provvidenza, ma procurando di placare la Giustizia Divina per le colpe degli individui e delle nazioni.

Lo spirito del cristiano deve inoltre riconoscere in tutti gli uomini altrettanti fratelli, creati ad immagine e somiglianza dello stesso Dio, redenti tutti dal Sangue divino e tutti incamminati alla stessa patria del cielo. Or chi tenga ciò presente non può dimenticare che la carità è il vincolo che unisce tutti gli uomini, epperò il sacro oratore deve « in ostensione spiritus » cantare le glorie di questa regina delle cristiane virtù, senza permettere che l’uman cuore accolga sentimenti di odio e di vendetta, nemmeno quando per avventura si tratti della difesa di cari interessi o di antichi diritti.

Non vi rechi meraviglia, o carissimi, che un lieve accenno sullo spirito del cristiano Ci abbia naturalmente condotti ad entrare nel campo della cristiana virtù. È così intimo il nesso fra le due cose, che anche San Paolo diceva la sua predicazione non essere stata solo « nella manifestazione dello spirito; in ostensione spiritus », ma anche in quella della virtù, « in ostensione spiritus et virtutis ». E non è l’idea del figlio congiunta a quella del padre? il ricordo del padre non trae seco quello del figlio? Non altrimenti il sacro oratore alla dimostrazione della vera essenza dello spirito cristiano deve far succedere l’indicazione della cristiana virtù, che trae da quella la sua forza, anzi l’origine sua.

Vorremmo dire l’importanza di quest’ultima parte della sacra predicazione. Ma certamente voi già Ci avete prevenuto, o dilettissimi figli: senza dubbio il cuor vostro si apre già alla speranza del frutto, che dovrà essere il miglior premio delle vostre fatiche nell’imminente Quaresima. E dovremmo Noi rammentarvi che questo frutto sarà tanto maggiore quanto più sollecita cura voi porrete nell’indicare in concreto la particolare virtù, che i vostri ascoltatori dovranno praticare, in conformità degli insegnamenti da voi ricevuti? San Paolo — già l’abbiamo detto — non si limitava all’« ostensione spiritus », ma passava anche a quella « virtutis ». Oh! i predicatori di Roma non facciano dissertazioni accademiche, ma discorsi morali ed esortazioni alla pratica delle virtù; non si contentino di dar gusto agli orecchi, ricordino di dover giovare all’anima. E all’anima gioveranno se, dopo di avere convenientemente illustrata una verità cattolica, additeranno ai fedeli le pratiche conseguenze che da quella cattolica verità devono trarre per il miglioramento della loro vita individuale, per il più savio indirizzo della famiglia e per il più sicuro avviamento della società ad un verace benessere.

Una dolce e cara fiducia pervade l’anima Nostra e di soave letizia la inonda in questo istante: è la fiducia che appunto così, « in ostensione spiritus et virtutis », voi, o dilettissimi figli, predicherete in Roma nella imminente Quaresima. Da Roma si irradia la fede; esce da Roma la parola che corregge gli abusi: oh! parta pure da Roma l’impulso a restituire alla sacra predicazione la forma apostolica: « sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ».

Al Nostro augurio, che i predicatori di Roma possano al termine della Quaresima ripetere ed appropriarsi queste parole di San Paolo, sono interessati in particolar modo i parroci di quest’Alma Città, perché essi, i quali devono attendere tutto l’anno alla istruzione dei loro fedeli, naturalmente desiderano che questi non abbiano gusti depravati in ordine alla sacra predicazione. A Noi dunque si uniscano i parroci di Roma, che con piacere salutiamo ora adunati alla Nostra presenza sotto l’amorosa guida del Nostro Cardinale Vicario, si uniscano a Noi nel pregare il Signore a rendere conforme a quella di San Paolo la predicazione dei quaresimalisti di Roma nel 1917, perché quanto più sarà apostolica, altrettanto più sarà efficace. Che se all’appagamento del Nostro voto manca ancora qualche cosa, Noi preghiamo il Signore di supplirvi coll’abbondanza della grazia, che copiosa invochiamo da Lui nell’impartire ai predicatori e ai parroci di Roma, nonché a quanti ora Ci fanno gradita corona, l’Apostolica Benedizione.

 

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