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EPISTOLA
DEL SOMMO PONTEFICE
GREGORIO XVI

LA MOLTIPLICITÀ

 

Al reverendissimo Cardinale Bartolomeo Pacca, pro-datario.

Il Papa Gregorio XVI.

La moltiplicità delle domande di dispense matrimoniali «per affini in primo grado e per consanguinei, o affini in primo misto al secondo grado», ha richiamato le paterne Nostre sollecitudini nel considerare moltiplicate quelle circostanze che, accompagnate il più delle volte dal delitto, vengono presentate quali cause di esso. Né sfuggì alla Nostra considerazione il riflesso che, agevolando le concessioni specialmente fra persone di condizione inferiore, fra le quali suole essere più libero e meno riservato il comportamento, si toglierebbe ogni ritegno a quella immoralità che tanto aumenta e per la continuità dell’occasione e per il maggior comodo di appagarla, nella fiducia anche di poterne ricoprire le conseguenze infelici con un nodo coniugale, e contemporaneamente le reità che lo precedettero.

Compresi perciò dal ben giusto timore di potere, con la Nostra indulgenza, dare occasione all’illanguidimento della sacra disciplina che si esige dalla santità del sacramento e tanto giova per la conservazione del costume, per la pace delle famiglie e per il pubblico bene, vedemmo la necessità di attenerci fermamente ad un sistema che, consentaneo alle prescrizioni del Tridentino e fondato sulle particolari circostanze di straordinaria urgenza di fatto, Ci tranquillizzasse nell’uso di quella autorità che alla Nostra debolezza affidò il Pastore dei pastori.

Fermi pertanto nel valutare quelle sole cause che per disposizioni canoniche o per una diuturna osservanza costantemente tenuta dalla Sede Apostolica si riconoscono per legittime, per tali non riconosceremo quelle a cui possa farsi fronte con altri mezzi senza derogare al divieto di congiunzioni matrimoniali entro gradi così prossimi di parentela. Sarebbe infatti troppo sconveniente sottrarre con la dispensa pontificia l’incestuoso a quelle pene a cui lo sottoporrebbero le leggi civili, mentre con ciò si renderebbe la dispensa stessa quasi strumento della impunità. Tanto potrebbe pur rimarcarsi sulle minacce di vendicare con la morte del reo l’onore violato di persone congiunte, se con il matrimonio esso non venga riparato; minacce le quali possono comprimersi dalla forza pubblica, e sono simulate comunemente, né provate per lo più che con false ed elaborate testimonianze.

Tali ed altri non dissimili riflessi, come meritano tutta la Nostra considerazione, così non possono non convincere gli Ordinar sulla necessità di non essere tanto facili a riconoscere anche in queste cause titoli canonici alla dispensa.

Mentre quindi incarichiamo la coscienza di essi nell’interporre le loro premure per quelle dispense che motivi canonici raccomandino, è Nostra volontà che in avvenire per le dispense «in primo grado di affinità, o in secondo misto al primo di consanguineità o affinità», non con le consuete testimoniali di formulario, ma, ove lo possano, i Vescovi stessi, i Vicari capitolari, i Vicari apostolici e gli Abati ordinari per i rispettivi sudditi debbano direttamente enunciare lecause canoniche che concorreranno in ciascun caso particolare, e le circostanze per cui giudichino necessaria la grazia, e il pericolo – ove vi sia – almeno verosimile della vita, il quale non possa evitarsi che con il matrimonio. Con tale provvedimento si renderà più difficile la riunione di cause sufficienti alla dispensa, e Noi saremo più tranquilli nell’annuire a concessioni, le quali riconosceremo giustificate dalla necessità, tanto più imponente quanto minori sono i mezzi per rimediarvi con altre disposizioni.

Gli Ordinar resteranno poi strettamente incaricati di verificare l’esposto nel dare esecuzione alla grazia, il che sarà loro molto più facile se, prima di scriverne alla Santa Sede, ne avranno tali prove che stimino sufficientemente giuste per raccomandarne la petizione. Abbiano essi su ciò presente quanto, sulla esecuzione delle dispense matrimoniali, prescrissero i Nostri gloriosi Predecessori, ed in special modo Benedetto XIV. Rammentino, secondo il suo avvertimento, che l’espressione delle cause nelle lettere apostoliche, e la loro verifica, lungi dall’essere, come dicono alcuni, «usuali, vane e superflue, inutili formalità di curia, da compiersi sbrigativamente», influiscono anzi positivamente «sulla sostanza e la validità della dispensa», e pertanto s’impegnino ad usare ogni più rigorosa cautela nell’eseguire le dispense che si affidano loro.

Siccome poi comunemente si vuole rimediare con il matrimonio agli infelici effetti di scandalose corrispondenze, di accanite gelosie e di altre non meno gravi, e talvolta notorie, reità, è Nostra volontà che dagli oratori si premettano salutari penitenze e pii esercizi in espiazione e riparazione dello scandalo dato, secondo l’esigenza delle circostanze e la gravità del caso.

Infine, Noi, ansiosi di impedire, per quanto sia possibile, ogni irregolarità in materia di tanto rilievo, con le parole del lodato Benedetto XIV «esortiamo, ammoniamo e comandiamo a tutti e ai singoli gestori di trattative, ai procuratori ed ai procacciatori di lettere apostoliche affinché, quando si accingono a stendere supplichevoli istanze per qualche dispensa matrimoniale... espongano chiaramente e sinceramente la vicenda, e si preoccupino diligentemente di non alterarla, mutarla, rovesciarla e modificarla oltre misura nelle cose sostanziali, ma aderiscano strettamente a quelle che sono state esposte loro dai richiedenti, e soprattutto non attribuiscano qualcosa di falso o di accaduto secondo la propria fantasia o la propria invenzione per ottenere più facilmente la grazia della dispensa»(Ibid., § 4). Ché anzi, per fare argine a tanto disordine, per cui con irrite ed invalide concessioni si procura l’eterna rovina delle anime «e si danneggia l’onore e il decoro di questa alma Città e si nuoce allo splendore e alla dignità della Sede Apostolica», rinnoviamo contro coloro che, dimentichi del loro dovere, in ciò mancassero, i provvedimenti che, sanzionati già da San Pio VI, si confermarono dallo stesso predecessore Nostro Benedetto XIV , in forza dei quali «incorrerebbero nel peccato di falso e dovrebbero essere puniti – senza obbligo di rifusione delle spese da parte dei richiedenti – coloro che per tale colpa avessero ottenuto dispense che non possono essere portate ad esecuzione»: pene nelle quali incorrono, oltre la nullità della grazia, secondo reiterati decreti dei Nostri Predecessori, anche coloro «che, dopo aver ricevuto una prima sentenza negativa, o nel sospetto di riceverla contraria, tentano calcolatamente di adire ad un altro consesso giudicante che, essendo meno informato, possa concedere ciò che il precedente negò, o avrebbe potuto negare» .

Pertanto potrete comunicare questa Nostra pontificia disposizione agli Ordinar d’Italia, agli ufficiali della Nostra Dataria Apostolica e a chi crederete opportuno, affinché la medesima sia eseguita, astenendovi di dar corso a petizioni che si presentino in diversa maniera, e procurando anche che nelle lettere apostoliche, secondo il prescritto dello stesso Benedetto XIV, le cause addotte per le dispense «siano esposte e dichiarate nel modo più esauriente e più chiaro», dal che si renderà più manifesta la ragionevolezza della grazia, e meno difficile sarà all’esecutore il verificarle.

Tanto vogliamo che si esegua sempre in avvenire ed in perpetuo nonostante qualunque osservanza, ordine e decreto contrario alle presenti Nostre disposizioni, derogando Noi per tale effetto ai medesimi, sebbene meritevoli di menzione speciale.

Dato dalle stanze del Vaticano il 22 novembre 1836.



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