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VISITA PASTORALE A PADOVA

SOLENNE CONCELEBRAZIONE CON I VESCOVI DEL TRIVENETO

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Padova, 12 settembre 1982

 

1. “E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato . . . poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31).

Leggiamo queste parole oggi nel Vangelo secondo Marco, in cui gli Apostoli rispondono alla domanda di Cristo: “Chi dice la gente che io sia?” (Mc 8, 27).

Conosciamo questa domanda, e conosciamo le risposte che hanno dato gli interlocutori. Alla fine Gesù domandò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”, che vuol dire il Messia (Mc 8, 29).

Conosciamo anche questa risposta di Pietro nella versione più lunga dell’evangelista Matteo. Pietro professa la dignità messianica di Gesù di Nazaret. Ed ecco, lo stesso Pietro quando sente che il Messia, il Figlio dell’uomo, deve essere riprovato, martoriato e ucciso prende in disparte Gesù e si mette a rimproverarlo (cf. Mc 8, 32). “Rimproverarlo” significa che cerca di convincerlo che questo non gli accadrà mai (cf. Mt 16, 22).

Così pensa e così dice lo stesso Pietro, che ha professato Gesù di Nazaret come il Messia.

Ed allora Cristo rimprovera Pietro con parole così severe come forse non ha mai usato nei confronti di nessun altro degli Apostoli: “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8, 33).

Lo stesso Pietro, che confessò la fede nel Messia, non voleva credere che Egli, “l’Unto di Dio” era, nello stesso tempo, “l’Agnello di Dio”; era “il servo di Jahvè” del Vecchio Testamento, afflitto e umiliato fino alla fine come aveva annunziato il profeta Isaia, secondo il brano ascoltato nella prima lettura d oggi.

E perciò Cristo protestò così categoricamente.

2. Cari fratelli e sorelle! Siamo qui oggi sulle orme dei Santi, che hanno accettato il mistero dell’“Agnello di Dio” e del “Servo di Dio” con tutta l’anima e l’hanno amato con tutto il cuore.

Francesco d’Assisi, del quale ricordiamo l’ottavo centenario della nascita, non poteva forse ripetere con Paolo apostolo le parole: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6, 14)?

E la stessa fede l’ha professata con il suo Maestro d’Assisi, Antonio di Padova, del quale la Chiesa ha celebrato lo scorso anno il 750° anniversario della morte, particolarmente in questa città, così strettamente legata al suo nome.

Francesco e Antonio non soltanto hanno professato la loro fede nella Croce e nel Crocifisso, ma anche hanno amato Colui che ci ha talmente amati, senza riserva, fino a giungere ad accettare la Croce!

Con lo sguardo rivolto a sant’Antonio e al suo Maestro san Francesco, porgo il mio saluto a voi tutti che siete riuniti in questa immensa piazza per la Celebrazione Eucaristica! Saluto in primo luogo il Pastore di questa diocesi, Monsignor Filippo Franceschi, e il suo predecessore, il venerando Monsignor Girolamo Bortignon; saluto cordialmente le Autorità, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i padri e le madri di famiglia, i lavoratori, i giovani, le giovani, i bambini, gli ammalati, tutti i presenti.

3. San Francesco e sant’Antonio hanno meditato nel proprio cuore su tutto ciò che il profeta Isaia aveva scritto sul “servo di Jahvè”, e che, parecchi secoli prima, sembra descrivere, in modo così dettagliato e preciso, gli avvenimenti del Venerdì Santo:
“Ho presentato il dorso ai flagellatori, / la guancia a coloro che mi strappavano la barba; / non ho sottratto la faccia / agli insulti e agli sputi . . .” (Is 50, 6).

Quanto vicine erano al cuore di Francesco e di Antonio queste ferite e offese!

Quanto viva era, per ciascuno di loro, questa “contesa”, che Gesù di Nazaret affrontò per la salvezza dell’uomo:
“. . . non resto confuso, / per questo rendo la mia faccia dura come pietra, / sapendo di non restare deluso . . . / chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. / Chi mi accusa? Si avvicini a me. / Ecco, il Signore Dio mi assiste: / chi mi dichiarerà colpevole?” (Is 50, 7-9).

Francesco e Antonio hanno letto con l’animo e con il cuore, con la fede e con l’amore, questa “contesa messianica”, che raggiunse il suo apice nel Getsemani e sul Calvario.

E perciò crescevano in loro non soltanto la fede, la speranza e la carità, ma cresceva insieme quel “vanto nella croce”, di cui ha scritto l’Apostolo nella lettera ai Galati.

4. Perché il “vanto nella croce”? Perché non “altro vanto che nella croce di Cristo”?

Perché la croce proclama fino alla fine, e al di sopra di ogni misura, al di sopra di ogni argomento dell’intelletto e della scienza, chi è l’uomo, agli occhi di Dio, nel suo eterno piano di amore!

Lo proclama una volta per sempre e irreversibilmente. Non si può imparare a fondo la dignità dell’uomo, se non “vantandosi soltanto nella croce”. E il senso della vita umana, il senso che essa ha nell’eterno piano di amore, non si può afferrare se non mediante quella “contesa messianica”, che Gesù di Nazaret condusse un giorno con Pietro e che continua a condurre con ogni uomo e con tutta l’umanità.

Il cristianesimo è la religione della “contesa messianica” con l’uomo e per l’uomo.

Ce ne rendiamo conto in modo chiaro, specialmente quando ritorniamo sulle orme di quei grandi seguaci di Cristo Crocifisso: Francesco d’Assisi e Antonio di Padova.

5. La Parola di Dio nell’odierna liturgia ci permette di comprendere che quella contesa messianica per l’uomo . . . con l’uomo, ha sempre la sua dimensione temporale e storica.

Non parla di questo, nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo, insegnando che la fede senza le opere è morta in se stessa?

“Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?” (Gc 2, 14).

E così, mediante queste semplici e fondamentali parole dell’apostolo, quella contesa messianica con l’uomo e per l’uomo si esprime come il contenuto della vita umana nella dimensione di ogni giorno e di tutta la storia terrestre dell’umanità.

Nella prospettiva della fede sta, in ogni luogo, un altro uomo: “un fratello o una sorella . . . senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano” (Gc 2, 15). L’altro uomo, l’uomo bisognoso in ogni grado della longitudine e della latitudine geografica, costituisce una sfida per la fede.

Quanti sono questi fratelli e queste sorelle nel mondo intero? Quanti sono alla nostra portata immediata? E in quanti modi essi soffrono carenze: la fame, la penuria, l’avvilimento dei loro fondamentali diritti umani?

Perciò Francesco d’Assisi e Antonio di Padova hanno intrapreso, nei loro tempi, quella contesa evangelica con ogni uomo e per ogni uomo a misura degli Apostoli e dei santi.

Perciò anche ai nostri giorni l’enciclica Redemptor Hominis ricorda che l’uomo è e non cessa di essere la “fondamentale via della Chiesa” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 14), l’uomo contemporaneo, la cui dignità, agli occhi del Creatore e del Redentore, non cessa di testimoniare la Croce di Cristo!

6. Quella contesa con l’uomo . . . e per l’uomo, che intraprese Cristo, ha, al tempo stesso, un’altra dimensione: in essa si decide il perenne ed insieme eterno destino dell’uomo, come essere creato a immagine e somiglianza di Dio.

Nell’esistenza umana in questo mondo si svolge come un grande dramma della vita e della morte, in conformità con ciò che ci ricorda oggi il Salmista:
“Mi stringevano funi di morte, / ero preso nei lacci degli inferi. / Mi opprimevano tristezza e angoscia” (Sal 114 [115], 3).

Cristo è venuto nel mondo, per unirsi all’uomo in questo dramma definitivo della sua esistenza.

Proprio perciò Paolo di Tarso e dopo di lui Francesco d’Assisi e Antonio di Padova si vantano nella Croce di Cristo. Poiché in essa è la piena risposta a questo grido più profondo dell’uomo consapevole dei suoi destini ultratemporali.

“Egli mi ha sottratto dalla morte, / ha liberato i miei occhi dalle lacrime, / ha preservato i miei piedi dalla caduta. / Camminerò alla presenza del Signore / sulla terra dei viventi” (Sal 114 [115], 8 s).

La fede, nella sua dimensione temporale e storica, vive mediante le opere di carità dell’uomo. La fede, nella sua dimensione definitiva ed eterna, si esprime mediante la partecipazione a questo Amore, che permette di superare il peccato e la morte.

Questo stesso amore di Dio genera la gioia, la gioia illimitata di esistere, di camminare alla presenza di Dio.

Una tale gioia portavano nel mondo, ai loro tempi, Francesco e Antonio e l’eco di tale gioia dura fino a oggi.

“Amo il Signore perché ascolta / il grido della mia preghiera. / Verso di me ha teso l’orecchio / nel giorno in cui lo invocavo” (Sal 114 [115], 1 s).

Così dunque quella “contesa messianica” con l’uomo . . . per l’uomo, che ha intrapreso Cristo, si risolve mediante l’amore, e l’amore definitivamente rende l’uomo felice; l’amore di Dio al disopra di ogni cosa, che si manifesta mediante l’amore dell’uomo, di ogni fratello e di ogni sorella, che Dio mette sulla strada del nostro pellegrinaggio terrestre.

Ecco l’eloquenza che anche nei nostri tempi ha, dopo tanti secoli, la testimonianza della vita di Francesco d’Assisi e di Antonio di Padova.

Essi camminano attraverso i secoli, non avendo, ciascuno di loro, altro vanto se non nella Croce di Cristo e dicono alle generazioni sempre nuove quale forza abbia la fede vivificata dall’amore.

E noi che ricordiamo la loro santa vita e le opere, dobbiamo farci una domanda:
siamo decisi ad accettare questa contesa che Cristo conduce con l’uomo e per l’uomo? . . .
siamo pronti a partecipare ad essa?

È la domanda circa la nostra fede, l’amore e la carità.

È la domanda circa il nostro oggi e domani cristiano!

       

 

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