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VISITA ALLA SCUOLA ALLIEVI CARABINIERI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Sabato, 9 aprile 1983

 

1. “Abbiamo contemplato o Dio, le meraviglie del tuo amore” (Psalmus responsorius Dominicae II post Pascha). Queste parole, tratte dalla liturgia di questa Messa prefestiva della seconda domenica di Pasqua, ci mettono nel giusto atteggiamento interiore di fronte al mistero pasquale, che qui oggi celebriamo insieme, e suscitano nel cuore anche un sentimento di letizia. E io desidero, innanzitutto, esprimere a tutti la mia gioia per essere oggi con voi. Vi ringrazio dell’invito e vi saluto di cuore. Rivolgo il mio saluto alle autorità qui presenti: al Comandante dell’Arma dei Carabinieri, Generale Valditara, ai Comandanti delle Scuole ufficiali, sottufficiali e allievi, agli allievi di ogni ordine e grado, oltre che alle rappresentanze dei reparti di Roma e d’Italia, a quelle dell’Opera nazionale orfani carabinieri, dell’Associazione nazionale carabinieri in congedo, alle vedove e agli orfani dei carabinieri caduti. Una menzione speciale desidero riservare all’Ordinario militare e ai Cappellani, che si prodigano per la vostra assistenza religiosa. A tutti voi va il mio pensiero deferente e, anzi, affettuoso.

Voglio anche dirvi il mio apprezzamento per l’attività da voi esercitata. Sono universalmente note le qualità che vi contraddistinguono: fedeltà allo Stato, dedizione al dovere, spirito di servizio. Sono virtù che rendono giustamente popolare il vostro Corpo, e delle quali dovete sempre dimostrarvi degni testimoni. So, comunque, che già avete avuto modo di comprovarle ampiamente nella lunga e gloriosa storia dell’Arma. Più volte, e anche in anni recenti, i Carabinieri hanno pagato di persona, e con la stessa vita, l’attaccamento al loro ideale, manifestando così un altruismo, una generosità, uno spirito di sacrificio, che ai nostri giorni sembrerebbero cosa rara. Mi piace citare, a questo proposito, l’eroico comportamento del vice brigadiere Salvo D’Acquisto durante il secondo conflitto mondiale, luminoso esempio di abnegazione e di sacrificio: ma so che molti altri non sono stati e non sono da meno. Questi sono esempi che rifulgono al di sopra di ogni interesse di parte e si impongono non solo al rispetto, ma anche all’ammirazione e alla riconoscenza di tutti. E io oggi vorrei anche farmi interprete di un diffuso sentimento, ringraziando voi e tutti i vostri colleghi per quanto fate, spendendovi instancabilmente in favore di una vita più sicura e più umana nella diletta Nazione italiana.

2. Carissimi, siamo stasera qui riuniti per celebrare una liturgia domenicale, che si colloca ancora a immediato ridosso della Festività di Pasqua, traendo da essa tutta la propria densità di significato. E oggi è offerta a tutti voi la possibilità per il vostro incontro pasquale con Cristo in questo Anno Giubilare della Redenzione.

Ho parlato poco fa di dedizione e di sacrificio come vostre qualità tipiche. Ma voi sapete bene che nel centro focale del messaggio cristiano c’è proprio il sacrificio di un uomo, anzi del “Figlio dell’uomo”, come lo chiama la seconda lettura biblica (Ap 1, 13), cioè Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Ef 5, 2; Gal 2, 20). Il suo sangue è stato lo strumento provvidenziale del nostro riscatto, della nostra riconciliazione con Dio, del ritrovamento della nostra più radicale libertà interiore. Egli infatti è andato incontro alla sua sorte non solo per senso di dovere, pur “facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 8), ma ancor più per libera accettazione e per amore: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13, 1). Un tale sacrificio, un simile amore, non poteva essere soffocato dalla morte. Da esso è venuta a noi la vita, perché la vita doveva trionfare sulla morte. L’immolazione di Gesù richiedeva la sua risurrezione. Egli perciò, come si esprime l’Apocalisse di Giovanni, si presenta davanti a noi con quelle parole solenni: “Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente; io ero morto, ma ora vivo per sempre” (Ap 1, 17-18). Ecco le meraviglie dell’amore di Dio che, come si esprime il Salmo responsoriale, siamo chiamati a contemplare.

Tutto ciò ci sta davanti non solo come esempio da imitare, come modello da riprodurre nella nostra vita, anche se questo sarebbe già molto. Ancora di più e soprattutto, il sacrificio di Gesù è origine e causa di una nostra rinascita, che consiste nella remissione di tutti i nostri peccati (cf. Col 2, 13-14) e nella donazione di una nuova identità, come fossimo ridiventati “bambini appena nati” (1 Pt 2, 2). Le solennità pasquali, pertanto, ci riportano al momento decisivo del nostro Battesimo, quando, per usare il linguaggio dell’apostolo Paolo, abbiamo deposto l’uomo vecchio e abbiamo rivestito l’uomo nuovo (cf. Col 3, 9-10; Ef 4, 22-24), diventando in Cristo una nuova creatura (cf. 2 Cor 5, 17).

3. Qui sorge però un interrogativo: abbiamo sempre camminato forse “in novità di vita”? (Rm 6, 4); cioè, siamo sempre stati all’altezza, nella vita concreta di ogni giorno, di quella novità fondamentale prodottasi in noi per grazia?

La risposta è nelle parole stesse di Gesù, quando ci ammonisce che nessuno può scagliare la prima pietra dell’innocenza assoluta contro un qualunque peccatore (cf. Gv 8, 7). Ma “fare Pasqua” significa attingere sempre di nuovo al tesoro inesauribile di quel Dio, che è “ricco di misericordia” (Ef 2, 4), e che proprio nell’autodonazione di Gesù si è dimostrato inequivocabilmente come un “Dio per noi” (Rm 8, 31). Solo lui “è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 3, 20). Ebbene, “fare Pasqua” per ciascuno di noi, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei, vuol dire accostarsi “con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4, 16).

Tutto questo suppone in noi la fede, e una fede viva, insieme umile e gioiosa. Il Vangelo che abbiamo letto poco fa ci ha ricordato l’episodio dell’incredulità di Tommaso. Certo, l’atteggiamento titubante di quell’apostolo viene in qualche modo in soccorso alla nostra stessa indecisione, poiché è stato occasione di una nuova e convincente manifestazione di Gesù, Davanti a lui finalmente egli è caduto in ginocchio, confessando apertamente; “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28). Eppure Gesù non loda il primo atteggiamento di Tommaso e formula invece una beatitudine, che è rivolta a tutti coloro che sarebbero venuti dopo, a ciascuno di noi; “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20, 29). È questo tipo di fede che noi dobbiamo rinnovare, sulla scia delle innumerevoli generazioni cristiane che per duemila anni hanno confessato Cristo, Signore invisibile, anche fino al martirio. Devono valere per noi, come già hanno avuto valore per innumerevoli altri, le antiche parole della prima Lettera di Pietro: senza vederlo credete in lui” (1 Pt 1, 8). Questa è fede genuina; dedizione assoluta a cose che non si vedono (cf. Eb 11, 1), ma che sono capaci di riempire e nobilitare tutta una vita (cf. Eb 11, 13. 38). Anche gli ideali che voi professate e servite sono invisibili. Ma se voi, invece dei concetti astratti di dovere, legge, servizio, ponete Gesù Cristo, allora quegli stessi ideali ricevono un nome e voi avete un motivo di più per donarvi generosamente per il bene degli uomini vostri fratelli.

4. Carissimi, il vostro odierno incontro pasquale con Cristo sia per tutti voi stimolo e viatico sul vostro cammino, e sorgente incessante di forza, di coraggio, nell’impegno per adempiere le funzioni inerenti al vostro stato e, anche per una incisiva testimonianza cristiana, Che questo Anno Santo, da poco iniziato, sia pure una felice occasione, da non mancare, per riconfermare ciascuno di voi nei suoi impegni cristiani, i quali non sono mai disgiunti da una crescita umana integrale.

So della vostra devozione filiale alla Madonna “Virgo Fidelis”: alla sua materna protezione raccomando tutti voi, i vostri amici, i vostri familiari. E vi accompagni sempre la mia benedizione, che sarò lieto di impartirvi al termine di questa Santa Messa.  

 

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