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VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN FELICE DA CANTALICE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 4 maggio 1986

 

1. Il suo tempio è il Signore (cf. Ap 21, 22). Nell’odierna domenica il Vangelo di san Giovanni ci conduce al Cenacolo. Congedandosi dagli apostoli - il giorno prima della sua morte sulla croce - Gesù dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). Proprio alcuni momenti prima di essere tradito, il suo cuore divino manifesta per noi i vertici di un amore sconfinato, rivelandoci il mistero dell’inabitazione di Dio in noi: l’uomo è chiamato a divenire “tempio” e “dimora” della santissima Trinità. A quale maggior grado di comunione con Dio potrebbe mai l’uomo aspirare? Qual maggior prova di questa potrebbe mai dare Dio di voler entrare in comunione con l’uomo? Tutta la storia millenaria della mistica cristiana - pur con certe sue sublimi espressioni - non può che parlarci assai imperfettamente di questa ineffabile presenza di Dio nell’intimo dell’uomo.

2. Da questa dimensione del “tempio” (l’intimo dell’uomo, l’anima umana) passiamo, nell’odierna liturgia pasquale, alla dimensione della Chiesa. La lettura degli Atti degli apostoli ci conduce sulle tracce degli inizi della Chiesa. Essa è una comunità che nasce dal mistero pasquale di Cristo, ed è guidata e vivificata dallo Spirito Santo, cosicché l’agire della Chiesa comporta un nesso inscindibile di responsabilità umana e di ispirazione divina: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi . . .”, come è detto nella citata lettura (At 15, 28).

Come l’anima del cristiano è abitata dalla santissima Trinità, così pure la Chiesa, comunità cristiana, è abitata dalla santissima Trinità; e anzi, il cristiano è “tempio” del mistero trinitario, proprio in quanto membro del Corpo mistico di Cristo, in quanto egli è “tralcio” vivo, innestato nella vera “vite” che è Cristo. Già da quaggiù, nonostante le miserie de questa vita, la Chiesa gode di questa intimità con Dio, che è il fondamento della sua infallibilità e indefettibilità.

3. Nello stesso tempo, insieme con questa dimensione “storica” della Chiesa, l’odierna liturgia ci mostra la sua dimensione “mistica”: Gerusalemme, la Città santa, “che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio” (Ap 21, 10). È la Chiesa del cielo, è la Chiesa composta dalle anime di coloro che, grazie alla redenzione di Cristo, hanno vinto in se stessi il peccato e la morte e ora godono il premio della vita eterna.

Come san Giovanni evangelista, dobbiamo sempre tenere gli occhi del nostro cuore fissi verso questa Gerusalemme celeste e gloriosa, che e la meta trascendente del nostro cammino e delle nostre fatiche terrene. Sempre dobbiamo contemplare questa “beata visione di pace”, che ci incoraggia e ci consola, ed è oggetto della nostra speranza. Lassù ci attendono i fratelli che hanno raggiunto la salvezza. Da lassù essi pregano e intercedono per noi, perché anche noi un giorno possiamo raggiungerli.

4. La Chiesa, nata dalla croce di Cristo e dalla sua risurrezione, è guidata costantemente dallo Spirito Santo, il Consolatore. “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26).

La Chiesa terrena, la Chiesa di quaggiù, è costantemente guidata dallo Spirito di Gesù risorto a un continuo approfondimento di quella medesima Verità che essa ha ricevuto fin dall’inizio dalle labbra del divino Maestro. Essa, nel corso dei secoli, comprende sempre meglio, grazie alla luce dello Spirito, quelle medesime parole che un giorno Cristo comunicò agli apostoli da trasmettere al mondo intero. In tal modo, la Chiesa “storica” si avvicina sempre più a quella piena conoscenza di Gesù-Verità, che è già possesso della Chiesa celeste, la “Gerusalemme di lassù” (Gal 4,26). Lo Spirito “consola” la Chiesa di quaggiù appunto con la visione della Chiesa del paradiso, verso la quale la Chiesa terrena tende con tutte le sue forze, nel desiderio ardente di congiungersi

5. Il Salmo responsoriale ci porta a considerare che la Chiesa, nel suo sviluppo storico, è mandata da Dio a tutte le nazioni fino ai confini della terra . . . “perché si conosca sulla terra la tua via, fra tutte le genti la tua salvezza” (Sal 66, 3).

In questa missione universale di salvezza, la Chiesa è costantemente animata e spinta dallo Spirito del Risorto, e dal desiderio di condurre tutti gli uomini a quella beatitudine della quale già godono i santi del cielo. Costoro peraltro aiutano la Chiesa stessa - mediante le loro preghiere - nello svolgimento della sua missione. Ed essa, dal canto suo, guardando con occhio di fede alla Gerusalemme celeste, trova in ciò la luce e la speranza che le consentono di mostrare con sicurezza al mondo la via della salvezza e della santità.

6. In questo modo la Chiesa nel mondo guida l’uomo - in mezzo alle diverse nazioni della terra - a questo tempio definitivo, che secondo l’Apocalisse di Giovanni si trova nella Gerusalemme eterna. “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21, 22).

La Gerusalemme celeste - a differenza della Chiesa di quaggiù, che, come dice il Vaticano II, è “sempre bisognosa di purificazione” (Lumen Gentium, 8) - è del tutto pura, del tutto santa: è tutta consacrata a Dio. Non vi è pertanto in essa nulla di profano, che debba distinguersi dal sacro. In essa, come dice l’Apocalisse, non vi sono templi, perché in essa tutto è tempio, tutto manifesta splendidamente e indubitabilmente la presenza beatifica della santissima Trinità, la quale, certamente, abita anche nella Chiesa di quaggiù; ma piuttosto sotto le ombre della fede e nell’anelito della speranza, e non quindi con quella chiarezza beatificante che è propria della Chiesa del cielo, soprattutto poi quando avverrà la parusia del Cristo e la gloriosa risurrezione dei morti. È questa Chiesa, nella sua perfezione finale, che è oggetto della contemplazione di san Giovanni nell’Apocalisse.

7. Dopo questi pensieri, ispirati dalle letture liturgiche dell’odierna domenica, vorrei esprimere la mia gioia per essere in questa parrocchia romana dedicata a san Felice da Cantalice, umile frate dell’Ordine cappuccino. Anche san Felice, come tanti abitanti di questo territorio, era un immigrato: egli venne a Roma da una località del Reatino, confinante con l’Abruzzo e il Molise, regioni dalle quali proviene la maggioranza di coloro che, da alcuni decenni, si sono stabiliti nel territorio di questa parrocchia.

Anche san Felice, come certamente tanti di voi che mi ascoltate, cari fratelli, affrontò quella realtà così spesso dura - per molti -, relativa al problema di procurarsi o di procurare, per i propri cari, il pane quotidiano. Egli infatti faceva il “frate cercatore”, svolgeva, cioè, quel servizio così umile ma così importante - molto diffuso un tempo tra gli Ordini cosiddetti “mendicanti” - di questuare giorno per giorno il sostentamento per la sua comunità. Una fatica a volte umiliante, ma che, unita alla testimonianza della sua grande bontà e sapienza, gli procacciava la stima e la simpatia di tutti. Egli pertanto fu una splendida figura di uomo di Dio, tutto dedito al bene dei fratelli, con totale disinteresse. Un uomo del lavoro, che non lavorava per se stesso, ma per il bene degli altri. Un esempio sempre attuale, un protettore, cari fratelli, che vi è particolarmente vicino. Siatene molto devoti!

8. Saluto cordialmente tutti i presenti: il cardinale vicario, il vescovo del Settore, mons. Giulio Salimei, il parroco, padre Fedele Jasevoli con i suoi collaboratori appartenenti all’Ordine cappuccino. Saluto poi le religiose residenti nel territorio della parrocchia, i numerosi gruppi parrocchiali, i fanciulli, i giovani, le famiglie, gli anziani, i malati, i lavoratori, tutto il popolo di Dio che vive in questa piccola porzione di Chiesa, piccola, dico, rispetto alla nostra diocesi; ma assai popolosa come parrocchia!

Conosco l’impegno da parte di tutti gli operatori pastorali - sacerdoti, religiose e laici - nel servire e nel promuovere questa comunità ecclesiale, soprattutto nel campo della catechesi e della liturgia. Di ciò mi compiaccio vivamente e vi dico: andate avanti su questa strada! Il lavoro da fare è ancora molto.

Occorrerà in modo particolare accentuare l’impegno della testimonianza e della missione, rinsaldare una certa pratica religiosa tradizionale e popolare attingendo maggiormente ai sani orientamenti attuali della spiritualità e della liturgia; occorrerà inoltre uno sforzo più intenso, da parte dei singoli e dei gruppi, per un coordinamento maggiore dell’azione pastorale, che eviti frazionamenti e dispersione d’energia, in modo tale che il lavoro sia più efficace e fecondo.

A tutti voglio rivolgere una parola d’incoraggiamento: a coloro che già svolgono un servizio speciale o si sentono maggiormente impegnati, perché si confermino ulteriormente in questa volontà di lavorare nella vigna del Signore; a coloro che non si sentono partecipi o che forse si sentono ai margini, perché si ricordino che c’è lavoro anche per loro, solo che essi ascoltino attentamente la voce del Signore.

9. Oggi, secondo le parole del Vangelo di Giovanni, il Signore Gesù prepara i discepoli alla sua dipartita dalla terra. Dice: “Vado . . . se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me” (Gv 14, 28). La Chiesa rilegge queste parole, all’avvicinarsi del giorno 40° dopo la risurrezione di Cristo: cioè l’Ascensione. Tuttavia Cristo dice non soltanto “vado”, ma dice anche “tornerò a voi”.

La partenza significa soltanto la conclusione della terrena missione messianica. Tuttavia essa non è una separazione. La missione di Cristo termina con la venuta dello Spirito Santo e con la nascita della Chiesa. Nella Chiesa Cristo - sempre presente e sempre operante nella potenza dello Spirito Consolatore - ci conduce alla Gerusalemme eterna. La missione della Chiesa è quella di condurre l’umanità a questi destini definitivi che ciascun uomo ha in Dio. È infatti un tempio in cui Dio vuole dimorare.

La dipartita di Cristo non produce dunque turbamento. È piena di pace. Il Salvatore dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14, 27). Ripetiamo queste parole quotidianamente nella liturgia eucaristica prima della Comunione. E aggiunge: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Vado e torno a voi”.

 

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