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VIAGGIO APOSTOLICO IN POLONIA

RITO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Mariana di Danzica - Venerdì, 12 giugno 1987

 

1. Ecco il Cristo chiamato al letto di un malato.

“Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. “Io verrò e lo curerò” (Mt 8, 6.7).

Questo è un caso - uno dei tanti, tutto il Vangelo è pieno di simili eventi. Cristo, chiamato presso i malati. Cristo, chiamato dagli ammalati. Cristo, al servizio degli uomini sofferenti. Le parole della Sacra Scrittura, lette in occasione dell’odierno incontro, sono rivolte a tutti e a ciascuno di noi quando ci troviamo faccia a faccia con la sofferenza di un altro uomo, nostro fratello o sorella.

Siamo costantemente chiamati. Tutti, in un certo senso veniamo chiamati, anche se ciascuno in modo diverso. La chiamata - l’invito, che il centurione del Vangelo ha rivolto a Cristo si ripete incessantemente. L’uomo soffre in diversi luoghi, a volte “soffre terribilmente”. E chiama un altro uomo. Ha bisogno del suo aiuto. Ha bisogno della sua presenza.

Quando dunque chiunque di noi, cari fratelli e sorelle, ovunque in questa terra polacca viene chiamato dalla sofferenza umana, si ponga davanti agli occhi questo evento del Vangelo. È il Cristo che dice al centurione: “Io verrò e lo curerò”. A volte ci intimidisce il fatto di non poter “guarire”, di non poter aiutare. Cerchiamo di superare questo imbarazzo. L’importante è andare. Stare accanto all’uomo che soffre. Egli forse più che della guarigione ha bisogno della presenza dell’uomo, del cuore umano, dell’umana solidarietà.

2. L’evento evangelico si riferisce in modo particolare a voi tutti, che con la sofferenza umana avete unito la vostra professione, la vocazione della vostra vita. A voi, medici. A voi, farmacisti. A voi, infermiere, lavoratori dei laboratori di analisi, degli ambulatori di riabilitazione. A voi tutti, compresi nel nome di “operatori sanitari”.

Prima di tutto, voi, cari fratelli e sorelle, dovreste avere davanti agli occhi il Cristo chiamato presso il servo paralizzato del centurione il Cristo che dice: “verrò”. Questa è anche la vostra risposta: “io verrò . . .”, “farò il possibile per la tua salute . . .”.

Mentre lo dico, ho davanti agli occhi coloro che sono qui presenti: medici, infermieri, tutti i rappresentanti degli operatori sanitari. Contemporaneamente però tutti i vostri colleghi e le colleghe in tutta la terra polacca. Ho davanti ai miei occhi le istituzioni che servono la salute umana: ambulatori medici e dentistici, ospedali, cliniche, località climatiche, sanatori, case di cura.

Ho sempre nutrito e continuo a nutrire una profonda ammirazione per questa vocazione che sembra essere così tanto radicata nel Vangelo, e allo stesso tempo in tutta la tradizione umanitaria del genere umano, anche precristiano e non cristiano.

Cristo che dice: “verrò . . . curerò”. E ciascuno di voi dovrebbe dire e dice: “verrò, farò tutto ciò di cui sono capace, per la tua salute”.

3. “Farò il possibile” - cioè avrò la volontà, la disponibilità ed anche la gioia di portare aiuto a uno che soffre, di quel “fermarsi accanto alla sofferenza dell’uomo” di provare quella sensibilità e commozione per la sofferenza altrui e per il “dono samaritano di me stesso”, di cui ha tanto bisogno un uomo malato.

Lo stato di salute della società polacca fa sorgere fondati timori. Continuano ad aumentare in questa società le malattie dell’apparato circolatorio e i tumori, molte persone, e tra queste i giovani, continuano a manifestare la loro dipendenza dall’alcol, dalla droga e dalla nicotina. Neppure lo stato di salute dei bambini è soddisfacente. E un grande campo questo per la azione profilattica e terapeutica degli operatori sanitari. È deprimente il fatto che nei reparti ospedalieri si continuano ad eseguire in modo massiccio interventi d’interruzione della gravidanza. La medicina contemporanea si è molto sviluppata e specializzata.

Di conseguenza, per poter “far tutto per la salute dell’uomo” bisogna creare condizioni adatte, come per esempio un numero sufficiente di ospedali e di ambulatori opportunamente attrezzati, di medicinali adatti e di altri mezzi l’insufficienza dei quali, purtroppo, in Polonia si fa risentire. Questa insufficienza, la mancanza di posti letto negli ospedali, la lunga attesa negli ambulatori medici, l’attesa per l’intervento chirurgico tutto questo rende più difficile il già non facile lavoro dei medici e già carico di responsabilità.

Allo stesso tempo, esso richiede da loro tanto maggiore sensibilità morale, un’alta etica professionale e la comprensione del loro ruolo di servizio verso il sofferente. Bisogna ad ogni costo sostenere la bella tradizione polacca: l’opera del medico e dell’infermiere viene trattata non solo come una professione ma anche e forse prima di tutto come una vocazione. La cura per i minorati fisici e gli anziani, la cura per i malati di mente - questi settori sono, più di ogni altro settore della vita sociale, il metro della cultura della società e dello stato. Immedesimandomi in questo non facile impegno quotidiano degli operatori sanitari penso “a tutti quegli uomini, che con la loro scienza e la loro capacità rendono multiformi servizi al prossimo sofferente” (Ioannnis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, 29) - e desidero, a nome della Chiesa, rivolgere loro espressioni di pro fonda riconoscenza e gratitudine.

4. “Il mio servo . . . soffre terribilmente”.

Cristo non è solo colui che “ora”, creando un modello evangelico per tutti coloro che servono i malati. Cristo allo stesso tempo dice di se: “ero malato”. E queste parole appartengono all’immagine del giudizio finale secondo il Vangelo di San Matteo: “ero malato e mi avete visitato” (cf. Mt 25, 36).

Nel Vangelo noi non vediamo Gesù come ammalato sul letto del dolore ma lo troviamo all’apice della sofferenza: martoriato, sottoposto alle terribili torture del corpo e dell’anima. Lo vediamo prima durante l’agonia spirituale del Getsemani, e il giorno dopo durante la terribile agonia della crocifissione. Davvero, Egli è l’Uomo dei Dolori. Davvero, attraversò lo zenit stesso della sofferenza umana: fisica e morale deriso e disprezzato dagli uomini. Davvero “verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo” (cf. Sal 22, 7). Il figlio di Dio che “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 8).

E dunque Egli potrà dire nel giorno del giudizio: “ero malato”, “ho avuto fino in fondo il calice della sofferenza . . .”. Egli può dire così. E quando, sorpresi dalle sue parole, gli uomini chiederanno: “. . .  quando ti abbiamo fatto questo?

Quando ti abbiamo visto malato . . . e siamo venuti a visitarti? Risponderà: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (cf. Mt 25, 39-40).

5. Cari fratelli e sorelle, qui riuniti, e voi tutti malati e sofferenti in terra polacca! È straordinario ciò che dice Cristo. È straordinario quel suo identificarsi con ognuno e ognuna di voi. Questo è insieme una “carta d’identità” evangelica per ciascuno e ciascuna. E San Paolo, il quale in un certo senso porta fino in fondo il pensiero contenuto nelle parole del Redentore sopracitate, scriverà: “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24).

A questo problema così fondamentale per il singolo uomo e per tutta la Chiesa ho dedicato molto spazio nella stesura della Salvifici Doloris. “La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella Croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza” (Ioannis Pauli PP. II, Salvifici Doloris, 3) così dunque sulla via del servizio sacerdotale, la Chiesa cerca in vario modo l’incontro con l’uomo che soffre nelle istituzioni sanitarie e nelle case dei malati.

Nella Chiesa il malato, colui che soffre, “è chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione . . . In quanto l’uomo diventa partecipe della sofferenza di Cristo in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia -, intanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo” (Ivi, 24). Perciò il sofferente “trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione”. Su questa vita di servizio il sacerdote s’incontra con il medico per servire insieme l’ammalato il cui campo delle sofferenze è diversificato e pluridimensionale, così come è pluridimensionale l’esistenza dell’uomo. Questo comune servizio medico-pastorale ha un’importanza particolare per il malato che si avvicina al termine dell’esistenza terrena. Penso con riconoscimento all’“hospicium” che ha iniziato il suo servizio a Danzica e si irradia sulle altre città.

Esso è nato dalla comune sollecitudine della pastorale dei malati e dei medici presenti accanto al letto del malato, per il dovuto posto e le condizioni in cui versano i malati al termine della loro vita. Questa sollecitudine si esprime nel chinarsi insieme e vegliare accanto ad un malato nella sua casa, in un cordiale e gratuito “dono di sè”. Però un dono ancora maggiore è la saggezza e la maturità che si ricevono da un malato grave. “Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali” (Ivi, 26).

6. La sofferenza umana è sempre un mistero. Ed è molto difficile all’uomo da solo farsi largo attraverso le sue oscurità. Sull’orizzonte della nostra fede rimane questo unico punto di riferimento: la Croce di Cristo - lo zenit della sofferenza umana e della sofferenza di uno che è il più innocente, dell’Agnello senza macchia.

7. Celebrando l’Eucaristia, al momento della Santa comunione diciamo: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo . . .”.

E poi la risposta: “O Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa”.

Ecco le parole uscite dalla bocca del centurione. Appartengono all’insieme dell’invito rivolto al Salvatore a favore del servo che, “paralizzato . . ., soffre terribilmente”. “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8, 8). “. . . ma di soltanto una parola e io sarò salvato”.

I giorni del Congresso Eucaristico in Polonia sono il tempo, in cui ognuno di noi dovrebbe rinnovare in sè la profonda consapevolezza di queste parole, pronunciate per la prima volta dal centurione romano. Cari fratelli e sorelle! Ammalati e sofferenti.

Tutti voi siete inscritti molto profondamente in questo toccante mistero della fede: la Croce l’Eucaristia il cenacolo le parole del centurione. Ricordatevi che Cristo “ci amò sino alla fine” (cf. Gv 13, 1) per mezzo della Croce, e questo amore permane nell’Eucaristia.

Ricordate! Sia questa la vostra forza nella debolezza. Anche voi siete chiamati ad amare “sino alla fine”. E voi, cari fratelli e sorelle, medici, infermieri, operatori sanitari anche voi siete chiamati ad amare “sino alla fine”.

Meditate che cosa vuol dire questo!

Che cosa vuol dire questo?!

 

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