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LETTERA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
A MONSIGNOR ERSILIO TONINI,
ARCIVESCOVO DI RAVENNA

 

Al venerato Fratello Ersilio Tonini,
Arcivescovo di Ravenna.

Ricorrendo il 60° anniversario della morte eroica di don Giovanni Minzoni, già parroco di Argenta, la Chiesa che è in Ravenna, in consonanza con le diocesi dell’Emilia-Romagna, ne celebra la santa memoria per indicare ancora una volta all’attenzione di tutti quell’eccezionale figura di sacerdote. Così, codesta comunità diocesana guidata dal suo zelante Pastore - mentre ha avuto luogo un Convegno di studi storici con la partecipazione di illustri esponenti della cultura - ha organizzato solenni manifestazioni religiose che culmineranno con la traslazione delle spoglie mortali di don Giovanni Minzoni dal Cimitero di Ravenna al Duomo di Argenta, dove egli esercitò fino alla definitiva immolazione un luminoso servizio sacerdotale.

Tale momento conclusivo diverrà preghiera di tutto il Popolo di Dio mediante una solenne concelebrazione eucaristica, a cui desidero essere spiritualmente presente, ben consapevole dell’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire per l’intera Nazione italiana. È per questo che ho voluto indirizzare a lei, venerato Fratello, e insieme a tutto il Presbiterio di codesta antica e nobilissima arcidiocesi un mio personale messaggio, per il degno tramite dell’Arcivescovo Achille Silvestrini, Segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, che è anche figlio di codesta gente di Romagna.

Don Giovanni Minzoni appartiene al popolo romagnolo e ne impersona la tipica esaltazione per ogni ardua e nobile impresa; è quindi giustificata la grata e affettuosa ammirazione suscitata tra i conterranei che in quella figura sacerdotale riconoscono una genuina espressione della propria anima e un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi della fede, ne riconoscono i puri valori.

Don Minzoni morì “vittima scelta” di una violenza cieca e brutale, ma il senso radicale di quella immolazione supera di gran lunga la semplice volontà di opposizione a un regime oppressivo e si colloca sul piano della fede cristiana, mentre ricava la sua giusta prospettiva da un iter sacerdotale e pastorale di smagliante limpidezza.

Egli attinse alle radici stesse della libertà, cioè a quella dignità umana restituita ed elevata dalla Redenzione di Cristo, e poté quindi scrivere con sicurezza: “La religione non ammette servilismo, ma il martirio”. Del resto, lo spirito con cui va incontro al suo martirio è quello mite e paziente di Cristo stesso, spirito di amore per la verità e di perdono per quanti non godono della sua luce. Poco prima della morte egli scriveva: “A cuore aperto, con la preghiera che mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo”.

Secondo le testimonianze di quanti lo conobbero, egli fu sacerdote di intensa vita interiore; animato da amore totale alla Chiesa e da vero slancio per il suo ministero di Cappellano militare sul fronte di guerra e di parroco di Argenta; dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, con partecipazione appassionata alla vita civile dell’Italia.

In un contesto sociale, politico e religioso di estrema difficoltà, affrontò le problematiche del suo tempo con serenità, con ardimento inventivo, con coraggiosa coerenza, in consonanza con l’aspirazione del movimento cattolico e soprattutto come formatore di coscienze giovanili e animatore della sua comunità, dove - secondo la testimonianza del suo Arcivescovo - fu “stimato, venerato e quasi idolatrato”.

Fu il suo fascino spirituale, esercitato sulla popolazione, sulle forze del lavoro e in particolare sui giovani a provocare l’aggressione; si volle stroncare soprattutto la sua azione educativa diretta a formare la gioventù per prepararla nel contempo a una solida vita cristiana e a un conseguente impegno per la trasformazione della società. Per questo gli Esploratori cattolici sono a lui estremamente debitori.

Con una personalità umana e sacerdotale tanto ricca ben si accorda la sua affermazione: “Chi vuol essere un apostolo della nostra idea non può non essere predestinato al martirio”. E insistendo sul momento emblematico della sua morte, quasi logico traguardo di un cammino sacerdotale tanto coerente, voglio ricordare quanto disse pochi giorni prima di morire: “Sarebbe bello essere uccisi sull’altare”.

La morte intravista come approdo di una irrinunciabile difesa della verità e della libertà, assume in lui il senso di un sacrificio estremo “per il trionfo della causa di Cristo”; sacrificio congiunto a quello di Cristo stesso che liberamente si offrì al Padre per affrancare l’uomo da ogni forma di errore e di schiavitù.

I sacerdoti e i laici impegnati in ogni settore della realtà sociale, decisi a pagare costi anche elevati pur di recarvi la verità, la libertà e la carità del Vangelo, sapranno trarre forti stimoli e sante ispirazioni dalla vita e dalla morte di don Giovanni Minzoni.

Quella del sacerdozio è una vocazione che richiede generosità di animo, fede in una grande causa, oblazione di sé. Esercitato spesso in una condizione di isolamento, il ministero sacerdotale comporta sempre sacrificio fedele e silenzioso, pieno rispetto per i lontani, lavoro umile e coraggioso sul confine tra la fede e l’incomprensione. Il problema emergente è quello di trovare un equilibrio tra le esigenze della consacrazione - che implica in certa parte solitudine e segregazione - e quelle dell’inserimento nella viva realtà sociale oggi più che mai richiesto dall’azione pastorale.

A questi “Pastori di anime”, a questi “uomini di frontiera” voglio dire una parola di ammirazione e di incoraggiamento, esortandoli a far propria l’ansia missionaria di don Minzoni. Ai laici cattolici, direttamente impegnati nell’azione politica e sociale, don Minzoni - che sognava un’Italia “più pura e più grande” - rivolge una parola di luminoso orientamento. I cattolici hanno l’urgente dovere di operare per un avvenire sociale più prospero, e a tale scopo sono essenzialmente chiamati a servire i valori umani, a rendere più sano il costume, a perseguire una sempre maggiore onestà nell’amministrazione dello Stato e in tutta la sfera della vita pubblica, con coraggio, con lealtà, con costanza. Tutto ciò implica una testimonianza di ineccepibile condotta personale.

Al termine di queste mie riflessioni, rivolgo il mio invito a tutti i partecipanti alla solenne concelebrazione eucaristica a volersi unire a me nella preghiera, affinché il Signore conceda alla diletta Italia di corrispondere pienamente alla sua vocazione cristiana per un avvenire di vero progresso, secondo le forti aspirazioni ideali di don Giovanni Minzoni.

In pegno di tale ardente voto, imparto a lei venerato e amato Pastore che siede sulla cattedra di Sant’Apollinare, agli Arcivescovi e Vescovi presenti, alle autorità, al clero e in particolare al diletto popolo di Argenta, di Ravenna e dell’intera Emilia-Romagna la mia affettuosa benedizione apostolica.

Dal Vaticano, 30 settembre 1983, V del Pontificato.  

GIOVANNI PAOLO PP. II

 

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