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MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
PER LA GIORNATA MONDIALE DELL'EMIGRAZIONE

 

Venerati fratelli, carissimi figli e figlie della Chiesa!

1. Questo messaggio per la Giornata mondiale dell’emigrazione, che le Chiese particolari celebreranno nel corso dell’anno liturgico, vorrei che recasse l’espressione del mio affetto, della mia sollecitudine, della mia preoccupazione per milioni di persone, coinvolte in uno dei più complessi e drammatici eventi della storia: le migrazioni. L’argomento merita ogni interesse e suscita vive preoccupazioni; di recente, infatti, le migrazioni hanno talvolta assunto l’aspetto disumanizzante della persecuzione: politica, religiosa, ideologica, etnica; e ciò imprime il suo stigma sul volto dei profughi, dei rifugiati, degli espulsi, degli esiliati: uomini e donne, vecchi o giovani, e persino bambini, spesso tragicamente privati dei genitori!

Reca tuttavia grande sollievo il fatto che la Chiesa si apra globalmente a tutta la complessa varietà del mondo delle migrazioni per additare e offrire condizioni di sopravvivenza, di vita, di lavoro, e, soprattutto, per creare un ambiente caratterizzato dal rispetto dei fondamentali diritti umani. Solo in tale ambiente questi nostri fratelli e sorelle potranno superare meno dolorosamente il dramma dell’inserimento, per loro troppo spesso traumatizzante, sia perché hanno una naturale inadeguatezza di adattamento e di apertura, sia perché si trovano ad affrontare una convivenza umana non di rado ostile, chiusa e intollerante verso tutto ciò che si ritiene diverso o che possa procurare disagio sociale ed economico.

Desidero, nello stesso tempo, manifestare apprezzamento per numerose iniziative legislative e sociali, che Paesi d’accoglienza hanno già messo in atto allo scopo di creare un’atmosfera non solo di tolleranza, ma di comprensione e di fraternità. Soprattutto le Conferenze episcopali si sono distinte con interventi coraggiosi, carichi di profonda ispirazione evangelica.

Vorrei però riflettere in particolare, nel presente messaggio, su questa ondata di drammatica mobilità, che si presenta da un punto di vista pastorale come un serio problema di vita cristiana, sotto l’aspetto dell’integrazione ecclesiale.

2. Il Concilio Vaticano II (cf. Christus Dominus, 18) ha sottolineato come la variata condizione umana assuma, anche in seno alla comunione ecclesiale, una configurazione di difficili intrecci, che soltanto il rispetto dei diritti e l’adempimento dei doveri possono aiutare a sciogliere.

A tutti coloro che, per qualsiasi motivo, si trovino a dimorare fuori dalla patria e della propria comunità etnica, le Chiese particolari sanno di dover dare la debita considerazione per la loro integrazione ecclesiale, nel rispetto dell’esercizio del diritto di libertà (cf. Gaudium et spes, 58).

La partecipazione libera e attiva, a livello paritario, con i fedeli nati nelle Chiese particolari, senza limiti di tempo e di restrizioni ambientali, costituisce la via dell’integrazione ecclesiale per i fedeli immigrati. Trattandosi di un processo di autopromozione, è indispensabile che questi abbiano agio di comprendere e valutare e siano assistiti e aiutati a farlo in tutto ciò che può essere assimilato nella loro esperienza esistenziale, nelle maniere e nello stile della loro cultura fondamentale, nel pluralismo delle loro identità. I fedeli immigrati, nel libero esercizio del loro diritto e dovere di essere nelle Chiese particolari pienamente in comunione ecclesiale e di sentirsi cristiani e fratelli verso tutti, debbono poter restare completamente se stessi in quanto concerne la lingua, la cultura, la liturgia, la spiritualità, le tradizioni particolari, per raggiungere quell’integrazione ecclesiale, che arricchisce la Chiesa di Dio e che è frutto del realismo dinamico dell’incarnazione del Figlio di Dio.

Nell’ambito dell’emigrazione ogni tentativo inteso ad accelerare o ritardare l’integrazione, o comunque l’inserimento specie se ispirato da una supremazia nazionalistica, politica e sociale, non può che soffocare o pregiudicare quell’auspicabile pluralità di voci, la quale scaturisce dal diritto alla libertà d’integrazione che i fedeli migranti hanno in ogni Chiesa particolare, in cui l’accettazione reciproca tra i gruppi che la compongono nasce dal vicendevole rispetto culturale. In forza di questo diritto alla libertà d’integrazione, l’ecclesialità specifica che gli immigrati portano con sé dalle loro Chiese di provenienza non diviene motivo di alienazione e di estraniamento dell’unità della fede proprio in quanto universale, cattolica. Si pone in evidenza, in concreto, la cattolicità della Chiesa nella varietà delle etnie e culture; e tale cattolicità implica una completa apertura agli altri, una prontezza a condividere e a vivere la medesima comunione ecclesiale. “Per la piena cattolicità, ogni nazione, ogni cultura ha un proprio ruolo da svolgere nell’universale piano di salvezza.

Ogni tradizione particolare, ogni Chiesa locale deve rimanere aperta e attenta alle altre Chiese e tradizioni; se rimanesse chiusa in sé, correrebbe il pericolo di impoverirsi anch’essa” (Giovanni Paolo II, Slavorum Apostoli, 27).

Nella lettera enciclica sul lavoro umano ho esortato a far di tutto perché il fenomeno dell’immigrazione, in quanto possibile, porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale dell’emigrato, “per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria che lascia” (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 23). Gli emigrati, infatti, offrono non solo l’apporto di un’intera esistenza di lavoro, ma molto spesso la ricchezza delle loro culture e tradizioni.

3. La libera integrazione dei migranti, nel suo evolversi e nel suo realizzarsi, è basata sulla natura della Chiesa, che è realtà di fede e di carità. Le Chiese particolari sono comunione in uno stesso corpo il corpo mistico di Cristo. Sono la Chiesa con riti vari, con la tradizioni liturgiche, culturali e religiose diverse. Sono la Chiesa che vede nei fedeli immigrati persone alle quali occorre offrire tutti i mezzi atti a farle crescere nella vita di fede e di carità, aiutandole a consolidare e a intensificare in pienezza la loro vita ecclesiale, come quando si trovavano nei Paesi di provenienza. Pertanto le Chiese particolari si preoccupano di mettere a loro disposizione sacerdoti, religiosi e religiose, laici di istituti secolari e laici volontari, per offrire loro liturgie appropriate, celebrazioni nella loro liturgia e nel rispetto delle loro legittime usanze, il conforto della parola di Dio anche per mezzo di visite personali o familiari e faranno sentire la presenza della Chiesa nella loro vita quotidiana, nei loro quartieri, nelle loro famiglie. Gli immigrati si sentiranno così compresi e assecondati nei loro rapporti sociali e in quelli di lavoro, accompagnati nei momenti difficili del dolore, come nel sollievo e nei passatempi.

Occorre riconoscere che molte questioni sorgono dalla mescolanza di lingue, di nazionalità, di tradizioni cristiane, di valori culturali, di diversa intensità di vita religiosa, che possono appesantire e complicare la collaborazione, l’intesa e le prospettive comuni. Ora, se la complessità delle situazioni esige una grande dedizione e disponibilità, non di rado eroica, le Chiese particolari hanno coscienza e certezza che lo Spirito Santo saprà suscitare in esse doni e carismi, che la pastorale accoglierà, favorirà e svilupperà con gioia e impegno.

Il mio pensiero si volge anche ai benemeriti istituti di vita consacrata, ove si forgiano religiosi e religiose, che in virtù della loro radicale dedizione all’edificazione del corpo mistico di Cristo, sono pronti anche a un’azione pastorale difficile, specialmente in favore dei migranti più abbandonati e bisognosi, dei rifugiati, deportati, esiliati, perseguitati. Proprio tra coloro che sono coinvolti nella mobilità, vengono talvolta a trovarsi seminaristi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici consacrati e impegnati: nel mistero della Provvidenza di Dio, con l’assistenza delle Chiese particolari, nelle quali si sono venuti a trovare, essi possono divenire operatori privilegiati di pastorale migratoria.

Le Chiese particolari di Paesi di popolazioni a prevalenza cattolica e cristiana, debbono inoltre affrontare anche l’impegno, spesso urgente, di dar vita all’apostolato della prima evangelizzazione missionaria tra la moltitudine di immigrati che non sono cristiani. Può avvenire che dai Paesi, da cui provengono questi immigrati, siano stati espulsi anche missionari e missionarie che ne conoscono lingua, cultura, valori, tradizioni; essi perciò possono divenire apostoli pronti a offrire la loro competenza e disponibilità ai pastori responsabili.

4. Ho colto rapidi aspetti dell’incidenza religiosa di quella che è un’immensa realtà umana e storica: le migrazioni dei nostri giorni, alla luce del disegno trascendente di Dio, per scoprirne la collocazione sul piano della salvezza operata nella Chiesa e dalla Chiesa.

Mi è cara l’occasione per raccomandare che si moltiplichino in tutti i modi gli sforzi per una valutazione umana, politica, sociologica del complesso fenomeno delle migrazioni, proprio nei suoi drammatici e preoccupanti aspetti negativi. Uomini politici e sociologi hanno dato e potranno dare un grande contributo per alleviarne e, in quanto possibile, eliminarne le cause. La Chiesa, dal canto suo, non ha mancato e non mancherà di operare con accresciuto impegno perché la propria azione di carità si armonizzi con quanto compie la società civile.

Possa questo mio messaggio aiutare a superare nel campo delle migrazioni quelle barriere che si frappongono non solo a una giusta integrazione ma alla più autentica fraternità evangelica (cf. At 2, 42-48; 4, 32-35). Possa contribuire ad unificare gli immigrati e gli autoctoni dei Paesi di accoglienza, rendendo possibile a tutti di far risuonare nel proprio accento la stessa e unica espressione di fede e di amore in Gesù Cristo, Redentore dell’uomo!

A voi tutti, fratelli e sorelle carissimi, la mia benedizione apostolica.

Dal Vaticano, 16 luglio 1985

GIOVANNI PAOLO II

 



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