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MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II 
PER LA GIORNATA MONDIALE DELLE MIGRAZIONI

 

Venerati fratelli, carissimi figli e figlie della Chiesa!

1. La celebrazione annuale della Giornata Mondiale del Migrante inducendoci a riflettere ancora una volta sulla condizione di migliaia di fratelli emigranti e sui loro problemi spesso gravi e dolorosi, ci fa volgere lo sguardo in modo speciale alle famiglie coinvolte nella migrazione. Si tratta di situazioni complesse e difficili da risolvere, che risultano al centro di tanti problemi e costituiscono quasi il punto più vivo, più acuto e spesso più doloroso di tutto il grande fenomeno migratorio umano. La famiglia, infatti, sembra essere la struttura più fragile, più vulnerabile e di fatto maggiormente investita dagli aspetti scabrosi e negativi della migrazione. Ciò risulta evidente tanto se si considerano le condizioni che affliggono le famiglie lasciate dai migranti, quanto se si riflette sulle difficoltà di intere famiglie che emigrano o che si formano in terra straniera, quanto infine se si pensa ai non pochi problemi emergenti per quei nuclei familiari che sorgono dall’incontro di persone di differente cultura, lingua, religione, costume.

Per tutti questi motivi la famiglia del migrante costituisce un singolare fenomeno che interessa la Chiesa a causa della cura pastorale che essa deve offrire a tutti i propri membri, specialmente a quelli che si trovano in situazioni più gravi; tanto più che la condizione delle famiglie dei migranti si riflette profondamente sia nelle comunità ecclesiali di partenza del migrante, sia - e forse ancor più - nelle comunità di arrivo, di insediamento e di accoglienza. È ai problemi specifici della famiglia in stato di migrazione che io desidero dedicare questo mio messaggio annuale per la Giornata dei migranti.  

Situazione della famiglia emigrata

2. La situazione in cui vengono a trovarsi i migranti è spesso paradossale: obbligati a decisioni coraggiose per il bene della famiglia che hanno o che vogliono formarsi, essi vengono, di fatto, privati della possibilità di raggiungere le loro legittime aspirazioni. La famiglia, che ha la missione di trasmettere i valori della vita e dell’amore, in emigrazione trova difficoltà a vivere questa sua vocazione proprio a motivo dell’esodo migratorio, che la colpisce in modi diversi.

Accanto ai ricongiungimenti familiari continuano a sopravvivere, anzi si moltiplicano, sistemi che perpetuano la separazione forzata degli sposi. I lavoratori, non solo quelli stagionali o in posizione irregolare, sono costretti a rimanere lontani per lunghi mesi e anni dalle loro spose, le quali debbono perciò assumersi ruoli a cui non sono abituate. I coniugi sono così condannati a un distacco che rende ancor più traumatica l’esperienza migratoria. Più spesso l’emigrazione comporta la separazione dei genitori dai figli, costretti a una socializzazione priva dell’immagine parentale ed educati secondo i comportamenti delle persone anziane, non sempre capaci di aiutare le giovani generazioni a proiettarsi verso il futuro.

Ma anche nel caso della famiglia immigrata, ricongiunta dopo anni di separazione, la precarietà del permesso di soggiorno e di lavoro incide non di rado nella situazione familiare di migliaia di lavoratori, con la conseguente incertezza per qualsiasi loro progetto, incluso quello della scolarizzazione dei figli, che richiederebbe di per sé una certa stabilità per un lungo arco di tempo. Peraltro, non è solo la precarietà del lavoro a minare la stabilità delle famiglie migrate. Non è raro che persistano nei loro confronti discriminazioni che si manifestano nella condizione degli alloggi, situati nei settori fatiscenti delle grandi metropoli; o nel rifiuto della loro partecipazione a livello socio-politico; o nell’emarginazione della donna emigrata. L’assunzione di lavori pesanti ricusati dalla popolazione nativa spesso comporta turni e durate di lavoro che rendono assai difficile una sana e armoniosa crescita del nucleo familiare. Tutto questo può indurre la famiglia dei migrati a non aprirsi alla società ospitante e a rifiutarsi di assumere responsabilità al di fuori dei piccoli interessi privati. Superato, dopo le difficoltà iniziali, il problema della sussistenza, la famiglia immigrata è tentata di seguire solo i valori materialistici e consumistici e a trascurare le pur necessarie scelte di ordine culturale e spirituale.

Per quanto poi riguarda l’educazione dei figli, la famiglia immigrata è spesso privata della possibilità di trasmettere la lingua e la cultura materne: i genitori immigrati divengono così testimoni passivi di una scuola e di una società che impongono ai loro figli modelli e valori non integrati con i valori familiari. E questo genera un conflitto che, alle volte, finisce per risolversi o con la totale amara capitolazione dei genitori o con la totale separazione dei figli, che hanno appreso una cultura diversa, impermeabile ai valori parentali.

Ancor più drammatiche sono le condizioni di vita delle famiglie relegate nei campi-profughi, dove è impossibile progettare il futuro per tutti i membri della famiglia, perché questi sono completamente in balia dell’altrui disponibilità.  

Richiamo alle responsabilità

3. Questo rapido sguardo alle condizioni della famiglia emigrata ci porta a considerare i valori fondamentali, comuni a tutti gli uomini di buona volontà, che vanno perseguiti per la loro realizzazione ed espansione sempre più piena. Tali sono, ad esempio, l’unità sia della coppia che del nucleo familiare, come pure l’armonia dell’integrazione vicendevole degli sposi dal punto di vista morale, affettivo e della loro fecondità di amore; armonia che esige la crescita ordinata di tutti i membri della famiglia, per la formazione di personalità individualmente sicure e socialmente impegnate, e che nello stesso tempo richiede ampia solidarietà e disponibilità al sacrificio.

La fede reca a questo riguardo una luce e una forza che esalta profondamente e sviluppa in perfezione i valori insiti nell’istituzione familiare, definita dal Vaticano II “Chiesa domestica”. Questi valori impongono precisi doveri per chi ha l’impegno di favorire il bene comune verso quanti vogliono rispondere alle profonde esigenze che il Creatore ha messo nel cuore dell’uomo.

La Chiesa ribadisce con insistenza che, per uno Stato di diritto, la tutela delle famiglie, e in particolare di quelle dei migranti e dei rifugiati aggravate da ulteriori difficoltà, costituisce un progetto prioritario inderogabile. Lo Stato deve essere garante della parità di trattamento legislativo e deve perciò tutelare la famiglia emigrata e profuga in tutti i suoi diritti fondamentali, evitando ogni forma di discriminazione nella sfera del lavoro, dell’abitazione, della sanità, dell’educazione e cultura (cf. Discorso ai Vescovi della Calabria, 10 dicembre 1981: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IV, 2 [1981] 896 ss.).

Una politica atta a favorire e a privilegiare i ricongiungimenti familiari viene continuamente invocata nell’insegnamento della Chiesa. Giovanni XXIII ha chiamato la separazione delle famiglie per motivo di lavoro una “dolorosa anomalia” e ha sottolineato che “ciascuno ha l’obbligo di prendere coscienza e di far tutto ciò che è in suo potere per eliminarla” (Ioannis XXIII Messaggio Radiofonico, 28 giugno 1959: AAS 51 [1959] 482). Condizioni di emergenza che portano alla separazione temporanea dei coniugi non devono trasformarsi in scelte permanenti poiché, come ho ribadito ai lavoratori di Francia a Saint-Denis, il 31 maggio 1980, il “codice di lavoro ha per soggetto proprio l’uomo e non solo la produzione e il profitto” di gruppi di interesse (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 1 [1980] 1567).

Il categorico monito divino “l’uomo non separi quello che Dio ha congiunto” suona come implicita condanna per una società che concede qualche vantaggio economico a danno dei valori morali. Lo sforzo per superare una simile situazione, “obiettivamente difficile” (cf. Familiaris Consortio, 77), deve essere proprio di tutti: dei governanti, delle forze economiche e sociali, e degli stessi migranti.

Creare strutture di accoglienza, di informazione e di formazione sociale che aiutino la famiglia immigrata a uscire dall’isolamento e dall’ignoranza dell’ordine giuridico, sociale, educativo e previdenziale del paese di accoglienza, per quanto concerne il diritto di famiglia, è un altro obbligo della società e dello Stato.

Il paese di accoglienza deve anche impegnarsi a perseguire una politica che incrementi tutte le genuine espressioni culturali, locali e immigrate, presenti sul territorio nazionale, poiché ogni famiglia ha diritto alla sua identità culturale specifica (cf. Discorso al Corpo Diplomatico, 15 gennaio 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 1 [1983] 126 ss.).

Ai figli degli immigrati devono essere offerte uguali possibilità scolastiche perché - a parità di preparazione - possano accedere ai posti di lavoro, alle stesse condizioni dei figli della popolazione locale. La politica degli alloggi, inoltre, dovrà prevedere un’equa distribuzione di case popolari senza discriminazioni di sorta. Il negare la riscossione di assegni familiari a quei lavoratori i cui figli sono rimasti in patria, comporta un’ulteriore grave ingiustizia nei confronti della famiglia immigrata.

Sono queste alcune delle sfide poste al paese di accoglienza dalla presenza di famiglie immigrate e profughe. L’impegno a realizzare una vera uguaglianza e la volontà di tutelare i settori sociali più deboli, verso cui spesso confluiscono discriminazioni e razzismo, portano alla costruzione di una società più giusta e quindi più umana. Le nazioni di provenienza devono a loro volta progettare misure adeguate perché il ritorno delle famiglie emigrate comporti un reinserimento produttivo, e genitori e figli non si sentano doppiamente discriminati e non si vedano costretti a riprendere la via dell’esodo.  

Per una pastorale familiare

4. La Chiesa “sacramento di salvezza” per tutti gli uomini, per tutto l’uomo, difende i valori fondamentali della famiglia, al di là del modello culturale su cui questa è strutturata, e denuncia gli impedimenti che vi si oppongono, rivendicando la libertà di movimento e di decisione, nonché il primario diritto educativo che compete alla famiglia medesima: a tal riguardo va affermato che, in caso di conflitto tra società e famiglia, è, per principio, quest’ultima a dover prevalere.

La pastorale dovrà perciò aver ben presenti gli accennati valori fondamentali, e promuoverli con un determinato stile di intervento. Nel caso, purtroppo ancora molto diffuso, di divisione dei membri di una stessa famiglia, si dovranno da una parte lenire i disagi, soprattutto attivando la comunità ecclesiale perché faccia propri i problemi che ne derivano, e dall’altra non trascurare nulla perché sia superata qualsiasi condizione di provvisorietà.

Ci si dovrà sempre adoperare perché le famiglie siano interamente unite e perché alla famiglia del migrante vengano riconosciuti quegli spazi di cui ha bisogno e che le competono a pari dignità e diritto con le altre famiglie locali. “Le famiglie dei migranti . . . devono poter trovare dappertutto, nella Chiesa, la loro patria . . . Per quanto è possibile siano assistite da sacerdoti del loro stesso rito, cultura e idioma” (Familiaris Consortio, 77). Le famiglie degli immigrati vanno accostate dalla comunità ecclesiale ove risiedono, che deve essere disponibile alle loro eventuali necessità, al tempo stesso in cui le invita a partecipare alla vita della parrocchia. La costituzione di nuove famiglie è un momento decisivo per il futuro dei giovani interessati e per il benessere della società civile ed ecclesiale, un problema che in un certo senso si trova al centro della giovinezza. (cf. Ioannis Pauli PP. II Epistula Apostolica ad iuvenes, internationali vertente Anno Inventuti dicato, 10, die 31 mar. 1985: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1 [1985] 820 ss.)

L’esperienza della pastorale migrazione insegna doviziosamente, e sottolinea con forza, che i futuri coniugi devono essere illuminati sia sugli ostacoli di vario genere che incideranno sulla loro unione, sia soprattutto sui fattori positivi che dovranno arricchire tale unione, che, per essere solida, presuppone una fondamentale identità di vedute con la disponibilità a un mutuo adattamento il più completo possibile. Su questo punto è necessario che la pastorale sia chiara, oggettiva e ben configurata. Essa deve prevedere che i maggiori ostacoli per i contraenti il matrimonio sono rappresentati dalle differenze di cultura, di educazione, di religione, di convinzione personale.

Il nuovo Codice di diritto canonico affida ai pastori d’anime “l’obbligo di provvedere che la propria comunità ecclesiale porti ai fedeli quell’assistenza mediante la quale lo stato matrimoniale perseveri nello spirito cristiano e progredisca in perfezione” (Codex Iuris Canonici, can. 1063); e indica come punti vitali di tale assistenza la predicazione e la catechesi, la preparazione personale dei futuri coniugi, la fruttuosa celebrazione liturgica del sacro rito, il continuo sostegno agli sposi dopo la celebrazione del matrimonio. L’osservanza delle norme giuridiche e l’assidua cura pastorale - contemplata dallo stesso Codice - assumono un’incidenza speciale nel mondo migratorio, per la varietà delle situazioni che esso presenta.  

Matrimoni misti

5. Per unirsi in uno stesso amore, bisogna amare Dio del medesimo amore. Questo criterio deve essere ben tenuto presente quando si tratta di matrimoni tra credenti e non credenti, tra cattolici e non battezzati. Se in paesi a maggioranza cattolica vi è oggi una presenza migratoria sempre più consistente di non cristiani, è da prevedere che, in avvenire, i matrimoni misti porranno problemi sempre più gravi, e specialmente se il coniuge cattolico sarà costretto a vivere in un paese con una cultura che non si apre alla fede cristiana, anzi vi si oppone dottrinalmente e praticamente nella vita corrente, nella legislazione e nei costumi. I migranti si trovano, del resto, più esposti di altre persone o gruppi a scelte che coinvolgono rapporti tra culture e fedi diverse.

La catechesi appropriata per i nubendi di mista religione non si limiterà pertanto ad alcune istruzioni prima del matrimonio, ma dovrà mirare a formare persone religiosamente convinte e civilmente impegnate, che conoscano le motivazioni della propria fede e speranza, nonché quelle della coscienza e della fede altrui; che siano impegnate nel servizio ai poveri e alla comunità intera.  

Conclusioni

6. La pastorale familiare in emigrazione non può essere identica per ogni luogo e tempo. Le modalità della sua espressione devono tener conto della situazione del migrante, dell’ambiente da cui egli proviene e in cui vive, delle prospettive concrete di cui egli è in possesso. La creatività e lo zelo dei missionari e degli operatori pastorali, sotto la guida dei pastori, hanno qui un ampio spazio di azione, sempre nel quadro delle norme che la Chiesa si è data con il nuovo Codice di diritto canonico e con le varie disposizioni delle Conferenze episcopali e dei singoli vescovi. Infatti, nella diversità dei metodi e delle proposte non si deve mai perdere l’orientamento fondamentale comune, che è quello di attuare il piano di Dio, che ha voluto che l’uomo e la donna formassero una sola carne (cf. Mt 19, 6) nel vincolo del matrimonio e che significassero nella famiglia il grande mistero dei rapporti tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5, 32).

I giovani nubendi, le coppie di sposi, le famiglie vanno educate alla solidarietà vicendevole, in seno alla comunità ecclesiale e verso l’intera società. Il matrimonio e la famiglia, pur prendendo il loro avvio da una scelta libera e personale, costituiscono sempre un fatto sociale, e sono parte integrata nella comunità ecclesiale. Anche la liturgia può svolgere al riguardo un ruolo ragguardevole, permettendo di porre al centro della propria azione di lode e di grazie la realtà familiare, che si irrobustisce e si impone alla ammirata attenzione di tutti, specialmente dei giovani.

Nell’ambito dell’animazione cristiana proprio dei laici, non va dimenticata l’azione evangelizzatrice della famiglia emigrata i cui membri sono chiamati a evangelizzare e ad essere evangelizzati (cf. Familiaris Consortio, 52). Ad essi si ricorda che l’avvenire religioso e morale del focolare domestico risiede in buona parte nelle loro mani: se le famiglie si lasciano evangelizzare, esse diverranno a loro volta strumento di evangelizzazione di molte altre, influendo favorevolmente sull’ambiente di lavoro, nel quale vivono. Anche le famiglie nate da matrimoni misti non sono esenti dal dovere di annunciare Cristo ai figli, anzi sono invitate ad essere artefici di unità. (cf. Pauli VI Evangelii Nuntiandi, 71)

Auspico che questo messaggio incontri, tra quanti sono coinvolti nel fenomeno migratorio, attenta accoglienza e generosa rispondenza alle sue indicazioni, dettate dalla mia affettuosa, paterna sollecitudine pastorale. Di cuore imparto a tutti la mia speciale benedizione, con particolare pensiero per i più bisognosi, gli ammalati e i bambini, nella dura situazione dell’emigrazione.

Dal Vaticano, il 15 agosto 1986, solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, anno ottavo del mio pontificato.

 



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