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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE 
GIOVANNI PAOLO II 
PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE 1992

 

Carissimi fratelli e sorelle!

1. Appartengono ormai alla cronaca quotidiana notizie di movimenti di popoli poveri verso paesi ricchi, di drammi di profughi respinti alle frontiere, di migranti discriminati e sfruttati. Tali eventi non possono non ripercuotersi nella coscienza dei cristiani, che hanno fatto della solidale accoglienza verso chi si trova in difficoltà un segno distintivo della propria fede. L’emigrazione reca con sé risvolti preoccupanti sia per le lacerazioni familiari e per lo sradicamento culturale, sia per l’incertezza del futuro, cui vanno incontro coloro che sono costretti a lasciare la propria terra. A questo proposito la Giornata Mondiale del Migrante, che tutte le Chiese particolari sono chiamate a celebrare in una domenica, stabilita dalla Conferenza Episcopale Nazionale, offre l’opportunità per riflettere su questi problemi, per prendere coscienza dei loro aspetti drammatici e per promuovere una campagna di sensibilizzazione e di solidarietà.

2. Con la propria sollecitudine i cristiani testimoniano che la comunità, presso la quale i migranti arrivano, è una comunità che ama e accoglie anche lo straniero con l’atteggiamento gioioso di chi sa riconoscere in lui il volto di Cristo. Nel fenomeno delle migrazioni si riscontrano oggi molteplici situazioni. Vi sono i migranti che vivono e operano nella società di adozione già da tempo. Si tratta di persone che, avendo rinunciato per la maggior parte dei casi a far ritorno nel Paese di origine, attendono di essere riconosciuti come parte integrante nella società di cui condividono le vicende e l’impegno per lo sviluppo economico e sociale. Affrettarne il pieno inserimento è un atto di giustizia. Quale che sia il suo luogo di residenza, l’uomo ha diritto ad avere una Patria, nella quale trovarsi come a casa propria per realizzarsi in una prospettiva di sicurezza, di fiducia, di concordia e di pace. Allo scopo occorrono provvedimenti specifici, che favoriscano e rendano più spedite le procedure per il ricongiungimento familiare e per l’adozione di norme giuridiche, che assicurino un’effettiva uguaglianza di trattamento con i lavoratori autoctoni. Di grande importanza sarà anche il risanamento ambientale e sociale dei quartieri degradati, dove gli emigranti sono spesso costretti a vivere nell’emarginazione. Non è chi non veda poi quanto sia necessario, grazie anche al superamento dei problemi connessi con la disoccupazione, impegnarsi ad eliminare ogni discriminazione nella ricerca del posto di lavoro, della casa e nell’accesso all’assistenza sanitaria.

3. Certamente più dura è la condizione in cui si trovano i clandestini, che attendono di rimpiazzare i migranti legali a mano a mano che questi salgono nella scala sociale. È innegabile che il lavoro, con il quale i clandestini partecipano all’impegno comune di sviluppo economico, realizza una forma di appartenenza di fatto alla società. Si tratta di dare legittimità, scopo e dignità a questa appartenenza attraverso l’adozione di opportuni provvedimenti. Ma non tutti i clandestini trovano un impiego nel pur ricco e vario quadro delle società industriali. Il loro adattamento a una condizione di vita stentata costituisce un’ulteriore conferma dell’avvilente situazione in cui li riduce la povertà nei loro Paesi. Una volta si emigrava per crearsi migliori prospettive di vita: da molti Paesi oggi si emigra semplicemente per sopravvivere. Una tale situazione tende ad erodere anche la distinzione fra il concetto di rifugiato e quello di migrante, fino a far confluire le due categorie sotto il comune denominatore della necessità. Anche se i Paesi sviluppati non sono sempre in grado di assorbire l’intero numero di coloro che si avviano all’emigrazione, tuttavia va rilevato che il criterio per determinare la soglia della sopportabilità non può essere solo quello della semplice difesa del proprio benessere, senza tener conto delle necessità di chi è drammaticamente costretto a chiedere ospitalità. Le migrazioni oggi crescono perché si distanziano le risorse economiche, sociali e politiche fra Paesi ricchi e Paesi poveri, e si restringe il gruppo dei primi, mentre si allarga quello dei secondi. In questo scenario coloro che riescono a superare le barriere “nazionali” possono considerarsi, in un certo senso, fortunati, perché sono ammessi a godere delle briciole che cadono dalle tavole degli odierni “Epuloni”. Ma chi può contare gli innumerevoli poveri “Lazzari” che nemmeno di questo possono profittare? Come ho ricordato nell’Enciclica Centesimus annus, i Paesi più ricchi sono invitati a considerare con uno sguardo nuovo tale gravissimo problema, nella consapevolezza che al loro dovere morale di contribuire con tutte le forze alla sua soluzione corrisponde un preciso diritto allo sviluppo non solo della singola persona, ma di interi popoli (cf. n. 35).

4. È evidente che in quest’opera un ruolo di primo piano sono chiamati a svolgere i cittadini stessi dei Paesi in via di sviluppo, questi “non possono sperare tutto dai Paesi più favoriti, ma debbono farsi strumento della propria liberazione, avviando in ogni campo lo spirito d’iniziativa secondo particolari programmi di sviluppo, per ampliare il giù possibile lo spazio della propria libertà e le prospettive di progresso, favorendo in via prioritaria l’alfabetizzazione e l’educazione di base” (Sollicitudo rei socialis, n. 44). Il sottosviluppo non è una fatalità. Per il suo superamento è indispensabile fare leva sulle risorse naturali ed umane di cui ogni popolo è dotato. Una parte di grande rilievo spetta evidentemente ai giovani, che completano la loro formazione scientifica nei Paesi industrializzati. Per la loro capacità di coniugare insieme tradizione e trasformazione, essi rappresentano la chiave per un migliore avvenire economico e sociale di quei Paesi. Quella delle migrazioni, legate al sottosviluppo, costituisce una sfida che occorre affrontare con coraggio e determinazione, trattandosi della difesa della persona umana. Come ebbi ad affermare parlando ai partecipanti al III Congresso mondiale della pastorale per i migranti e rifugiati, tenutosi in Vaticano nell’ottobre scorso, “l’esperienza mostra che quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spinta verso inediti traguardi economici ed umani” (“L’Osservatore Romano”, 6 ottobre 91).

5. Tale constatazione trova il suo più qualificato riscontro nella esperienza connessa con il grande avvenimento del V centenario dell’inizio dell’evangelizzazione dell’America. Non c’è dubbio che i Paesi delle Americhe devono il ruolo prestigioso, che oggi occupano nel concerto delle Nazioni, alla loro apertura alle migrazioni. La celebrazione dell’impresa di Colombo richiama l’attenzione sull’apporto di lavoro e di cultura dato dai migranti, che in 500 anni hanno trovato accoglienza in quelle terre, la cui storia si intreccia strettamente con quella delle migrazioni. Se oggi il mondo occidentale e quello americano sono in qualche misura parte di una stessa realtà, si deve a quell’affinità spirituale realizzata dalle migrazioni. Ed è in nome di questa fraternità che, facendo seguito al messaggio per la scorsa Quaresima “Chiamati a condividere la mensa della creazione”, ho voluto istituire la “Fondazione “Populorum Progressio” al servizio degli Indios e dei Campesinos d’America”, come “segno e testimonianza di un desiderio cristiano di fratellanza e di solidarietà” (“L’Osservatore Romano”, 29 febbraio 1992). Mi auguro che essa possa trovare generosa accoglienza e attiva rispondenza presso persone ed istituzioni, soprattutto in ambito cattolico, anche in considerazione della grande rilevanza che il Cattolicesimo ha nei Paesi di quella vasta area geografica.

6. Le migrazioni hanno messo spesso le Chiese particolari nell’occasione di autenticare e di rafforzare il loro senso cattolico accogliendo le diverse etnie e soprattutto realizzandone la comunione. L’unità della Chiesa non è data dalla stessa origine dei suoi componenti, ma dallo Spirito della Pentecoste che fa di tutte le Nazioni un popolo nuovo, il quale ha come fine il Regno, come condizione la libertà dei figli, come statuto il precetto dell’amore (cf. Lumen gentium, 9). L’impegno della Chiesa di farsi “prossima” a tutti i popoli risponde alla volontà del Padre Celeste che tutti abbraccia nel suo amore. L’unica meta a cui essa tende è di chiamare tutti gli uomini alla solidarietà più piena della nuova fratellanza in Cristo nella famiglia di Dio. La Vergine Madre, che si mostra sempre sollecita verso coloro che si trovano nel bisogno ed è perciò sensibile verso coloro che sperimentano personalmente i disagi della migrazione, conforti e aiuti tutti coloro che vivono lontani dalle proprie case ed ispiri in tutti sentimenti di comprensione e di accoglienza nei loro confronti. Con questi auspici ben volentieri imparto a quanti promuovono la nobile ed urgente causa dei migranti la benedizione apostolica, pegno di copiosi favori celesti.

 



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