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MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II
IN OCCASIONE DELLA 85a
«GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE 1999»

 

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Il Giubileo, al quale ci stiamo avvicinando a grandi passi, rappresenta per tutti uno straordinario momento di grazia e di riconciliazione. Esso coinvolge in maniera singolare anche il mondo dei migranti per le strette analogie esistenti tra la loro condizione e quella dei credenti: "Tutta la vita cristiana - ho scritto nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente - è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre" (n. 49). In questa Giornata Mondiale del Migrante, che cade nel terzo anno di preparazione al Giubileo, vorrei sviluppare alcune considerazioni alla luce di tale constatazione, per contribuire anche in questo modo a "dilatare gli orizzonti del credente secondo la prospettiva di Cristo: la prospettiva del Padre che è nei cieli dal quale è stato mandato ed al quale è ritornato" (Ibid.).

2. "La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri ed inquilini" (Lv 25, 23). In questa parola del Signore, riferita dal Libro del Levitico, è contenuta la motivazione fondamentale del Giubileo biblico cui corrisponde, nei discendenti di Abramo, la consapevolezza di essere ospiti e pellegrini nella terra promessa.

Il Nuovo Testamento estende tale convinzione ad ogni discepolo di Cristo che, essendo cittadino della patria celeste e concittadino dei santi (cfr Ef 2, 19), non ha stabile dimora sulla terra e vive come un nomade (cfr 1 Pt 2, 11), sempre in cerca della meta definitiva.

Queste categorie bibliche tornano ad essere significative nell'attuale contesto storico, fortemente segnato da consistenti flussi migratori e da un crescente pluralismo etnico e culturale. Esse sottolineano, altresì, che la Chiesa, presente sotto ogni cielo, non si identifica con alcuna etnia o cultura, poiché, come ricorda la Lettera a Diogneto, i cristiani "vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è per loro terra straniera . . . Dimorano sulla terra ma hanno la loro cittadinanza in cielo" (5, 1).

La Chiesa è per sua natura solidale con il mondo dei migranti, i quali con la loro varietà di lingue, razze, culture e costumi, le ricordano la sua condizione di popolo pellegrinante da ogni parte della terra verso la Patria definitiva. Questa prospettiva aiuta i cristiani ad abbandonare ogni logica nazionalistica ed a sottrarsi agli angusti schematismi ideologici. Essa ricorda loro che il Vangelo va incarnato nella vita, perché ne diventi fermento ed anima, grazie anche al costante impegno di liberarlo da quelle incrostazioni culturali che ne frenano l'intimo dinamismo.

3. Dio si manifesta nell'Antico Testamento come Colui che si schiera dalla parte dello straniero, dalla parte cioè del popolo di Israele schiavo in Egitto. Nella Nuova Legge, si rivela in Gesù, nato in una stalla, ai margini della città, "perché non c'era posto per loro nell'albergo" (Lc 2, 7), e senza un luogo dove posare il capo nel corso del suo ministero pubblico (cfr Mt 8, 20; Lc 9, 58). La Croce, poi, centro della rivelazione cristiana, costituisce il momento culminante di questa radicale condizione di straniero: Cristo muore "fuori della porta della città" (Eb 13, 12), rifiutato dal suo popolo. Tuttavia l'evangelista Giovanni ricorda le parole profetiche di Gesù: "Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me" (12, 32) e sottolinea che proprio mediante la sua morte egli comincerà a "riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11, 52). Seguendo l'esempio del Maestro, anche la Chiesa vive la sua presenza nel mondo in atteggiamento di pellegrina, impegnandosi a farsi creatrice di comunione, casa accogliente nella quale ogni uomo è riconosciuto nella dignità conferitagli dal Creatore.

4. Le differenze etniche e culturali, che esistono nel seno della Chiesa, potrebbero costituire una fonte di divisione o di dispersione, se non vi fosse in essa la forza coesiva della carità, virtù che tutti i cristiani sono invitati a vivere in modo particolare in quest'ultimo anno di preparazione immediata al Giubileo. Nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente ho scritto: "In quest'anno sarà opportuno mettere in risalto la virtù teologale della carità, ricordando la sintetica affermazione della prima Lettera di Giovanni (4, 8.16): Dio è amore. La carità nel suo duplice volto di amore per Dio e per i fratelli, è la sintesi della vita morale del credente. Essa ha in Dio la sua scaturigine ed il suo approdo" (n. 50).

"Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lv 19, 18). Nel libro del Levitico questa formulazione compare all'interno di una serie di precetti che proibiscono l'ingiustizia. Uno di questi ammonisce: "Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio" (19, 33-34).

La motivazione: "perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto", che accompagna costantemente il comando di rispettare ed amare il migrante, non mira soltanto a ricordare al popolo eletto la sua passata condizione; essa vuole anche richiamare la sua attenzione sul comportamento di Dio, che con generosa iniziativa ha liberato il suo popolo dalla schiavitù e gratuitamente gli ha donato una terra. "Eri schiavo e Dio è intervenuto per liberarti; hai dunque visto come Dio si è comportato con il migrante; fa altrettanto": è questa l'implicita riflessione sottesa al precetto.

5. Nel Nuovo Testamento tutte le distinzioni fra gli esseri umani cadono con la soppressione ad opera di Cristo del muro di divisione fra il popolo eletto e i pagani. "Egli - scrive san Paolo - è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia" (Ef 2, 14). Con la Pasqua di Cristo non esistono più il vicino e il lontano, l'ebreo ed il pagano, l'accettato e l'escluso.

Per il cristiano ogni uomo è il "prossimo" da amare. Egli non s'interroga su chi deve amare, perché domandarsi "chi è il mio prossimo" è già porre limiti e condizioni. Un giorno fu rivolta questa domanda a Gesù ed egli rispose capovolgendola: non "chi è il mio prossimo?", ma "a chi debbo farmi io prossimo?", è la domanda legittima. E la risposta è: "chiunque è nel bisogno, anche se mi è sconosciuto, diventa per me prossimo da aiutare". La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10, 30-37) invita ciascuno a superare i confini della giustizia nella prospettiva dell'amore gratuito e senza limiti.

Per il credente, inoltre, la carità è dono di Dio, carisma che, come la fede e la speranza, è effuso in noi mediante lo Spirito Santo (cfr Rm 5, 5): in quanto dono di Dio, essa non è utopia, ma concretezza; è buona notizia, Vangelo.

6. La presenza del migrante interpella la responsabilità dei credenti come singoli e come comunità. Espressione privilegiata della comunità, peraltro, è la parrocchia. Questa, come ricorda il Concilio Vaticano II, "offre un luminoso esempio di apostolato comunitario fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano, inserendole nell'universalità della Chiesa" (Apostolicam actuositatem, 10). La parrocchia è luogo di incontro e di integrazione di tutte le componenti d'una comunità. Essa rende visibile e sociologicamente individuabile il progetto di Dio di chiamare tutti gli uomini all'alleanza sancita in Cristo, senza eccezione o esclusione alcuna.

La parrocchia, che etimologicamente designa un'abitazione in cui l'ospite si trova a suo agio, accoglie tutti e non discrimina nessuno, perché nessuno le è estraneo. Essa coniuga la stabilità e la sicurezza di chi si trova a casa propria con il movimento o la provvisorietà di chi è di passaggio. Dove il senso della parrocchia è vivo, si affievoliscono o scompaiono le differenze tra nativi e stranieri, poiché prevale la consapevolezza della comune appartenenza a Dio, unico Padre.

Dalla missione propria di ogni comunità parrocchiale e dal significato che essa riveste all'interno della società, emerge l'importanza che la parrocchia ha nell'accoglienza dello straniero, nell'integrazione dei battezzati di culture differenti e nel dialogo con i credenti di altre religioni. Per la comunità parrocchiale non è, questa, una facoltativa attività di supplenza, ma un dovere inerente al suo compito istituzionale.

La cattolicità non si manifesta solamente nella comunione fraterna dei battezzati, ma si esprime anche nell'ospitalità assicurata allo straniero, quale che sia la sua appartenenza religiosa, nel rifiuto di ogni esclusione o discriminazione razziale, e nel riconoscimento della dignità personale di ciascuno con il conseguente impegno di promuoverne i diritti inalienabili.

Ruolo di rilievo hanno, in questo contesto, i sacerdoti chiamati ad essere nella comunità parrocchiale ministri di unità. Ad essi "è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo fra i popoli mediante il sacro ministero del Vangelo, perché l'oblazione dei popoli sia accetta e santificata dallo Spirito Santo" (Presbyterorum Ordinis, 1247).

Incontrando nella quotidiana celebrazione del divin Sacrificio il mistero di Gesù che ha donato la sua vita per raccogliere in unità i figli dispersi, essi sono sollecitati a porsi con ardore sempre nuovo a servizio dell'unità di tutti i figli dell'unico Padre celeste, adoperandosi perché ciascuno abbia il suo posto nella comunione fraterna.

7. "Ricordando che Gesù è venuto ad evangelizzare i poveri, come non sottolineare più decisamente l'opzione preferenziale della Chiesa per i poveri e gli emarginati?" (Tertio millennio adveniente, 51). Quest'interrogativo, che interpella ogni comunità cristiana, mette in luce il lodevole impegno di tante parrocchie nei quartieri in cui sono presenti fenomeni quali la disoccupazione, la concentrazione in spazi insufficienti di uomini e donne di diversa provenienza, il degrado connesso con la povertà, la scarsità di servizi e l'insicurezza. Le parrocchie costituiscono dei punti di riferimento visibili, facilmente individuabili ed accessibili e sono un segno di speranza e di fraternità non di rado tra lacerazioni sociali vistose, tensioni ed esplosioni di violenza. L'ascolto della medesima Parola di Dio, la celebrazione delle medesime liturgie, la condivisione delle stesse ricorrenze e tradizioni religiose aiutano i cristiani del luogo e quelli di recente immigrazione a sentirsi tutti membri di un medesimo popolo.

In un ambiente livellato ed appiattito dall'anonimato, la parrocchia costituisce un luogo di partecipazione, di convivialità e di riconoscimento reciproco. Contro l'insicurezza essa offre uno spazio di fiducia in cui si apprende a superare le proprie paure; in assenza di punti di riferimento da cui attingere luce e stimoli per vivere insieme, essa presenta, a partire dal Vangelo di Cristo, un cammino di fraternità e di riconciliazione. Posta al centro di una realtà segnata dalla precarietà, la parrocchia può diventare un vero segno di speranza. Canalizzando le energie migliori del quartiere, essa aiuta la popolazione a passare da una fatalistica visione di miseria ad un impegno attivo, finalizzato al cambiamento delle condizioni di vita assieme.

Numerosi membri delle comunità parrocchiali sono pure attivamente impegnati in strutture ed associazioni volte a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Mentre esprimo vivo apprezzamento per tali significative realizzazioni, esorto le comunità parrocchiali a perseverare con coraggio nell'opera intrapresa in favore dei migranti, per aiutare a promuovere nel territorio una qualità della vita più degna dell'uomo e della sua vocazione spirituale.

8. Quando si parla dei migranti, non si può non tener conto delle condizioni sociali dei Paesi da cui provengono. Sono Nazioni dove generalmente si vive in condizioni di grande povertà, che l'indebitamento estero tende ad aggravare. Nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente ricordavo che "nello spirito del Levitico (15, 8-28), i cristiani dovranno farsi voce di tutti i poveri del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra l'altro, ad una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale che pesa sul destino di molte Nazioni" (n. 51). E' questo uno degli aspetti che collegano più direttamente le migrazioni al Giubileo, non solo perché da tali Paesi muovono i flussi migratori più intensi, ma soprattutto perché il Giubileo, proponendo una visione dei beni della terra che ne condanna il possesso esclusivo (cfr Lv 25, 23), porta il credente ad aprirsi al povero ed allo straniero.

Nei tempi passati, il crescente divario fra ricchi e poveri, rendendo la convivenza sociale impossibile, richiedeva periodiche forme di livellamento per consentire una ripresa ordinata del vivere sociale. Così, abolendo l'ipoteca sulle persone ridotte in schiavitù per debiti, si ristabiliva una nuova forma di uguaglianza. Le prescrizioni del Giubileo biblico rappresentano una delle tante forme di rimedio allo squilibrio sociale, prodotto dalla spirale perversa che avvolge coloro che sono costretti ad indebitarsi per sopravvivere.

Tale fenomeno, che allora concerneva i rapporti dei cittadini di una medesima Nazione, è reso più drammatico dall'attuale globalizzazione dell'economia e del commercio, che coinvolge le relazioni tra gli Stati e le Regioni del mondo. Perché lo squilibrio tra popoli ricchi e popoli poveri non diventi irreversibile con tragiche conseguenze per l'intera umanità, occorre anche oggi tradurre il precetto biblico in forme concrete ed efficaci che permettano opportune revisioni dell'indebitamento dei Paesi poveri verso i Paesi ricchi.

Formulo voti che il prossimo Giubileo, come viene da più parti auspicato, costituisca un'occasione propizia per trovare le opportune soluzioni ed offrire ai Paesi poveri nuove condizioni di dignità e di ordinato sviluppo.

9. "Il Giubileo potrà pure offrire l'opportunità di meditare su altre sfide... quali, ad esempio, le difficoltà del dialogo fra culture diverse" (Tertio millennio adveniente, 51).

Il cristiano è chiamato ad evangelizzare, raggiungendo gli uomini là dove si trovano, ad incontrarli con simpatia e con amore, a farsi carico dei loro problemi, a conoscerne ed apprezzarne la cultura, ad aiutarli a superare i pregiudizi. Questa concreta forma di vicinanza a tanti fratelli nel bisogno li preparerà all'incontro con la luce del Vangelo e, facendo nascere legami di sincera stima ed amicizia, li condurrà a formulare la richiesta: "Vogliamo vedere Gesù" (Gv 12, 22). Il dialogo è essenziale per una convivenza serena e feconda.

Di fronte alle sfide sempre più pressanti dell'indifferentismo e della secolarizzazione, il Giubileo esige che venga intensificato questo dialogo. Attraverso rapporti quotidiani, i credenti sono chiamati a manifestare il volto d'una Chiesa aperta verso tutti, attenta alle realtà sociali e a quanto permette alla persona umana di affermare la sua dignità. In particolare, i cristiani, consapevoli dell'amore del Padre celeste, non mancheranno di ravvivare la loro attenzione nei confronti dei migranti per sviluppare un dialogo sincero e rispettoso, finalizzato alla costruzione della "civiltà dell'amore".

Maria Santissima, "che accompagna con materno amore la Chiesa e la protegge nel cammino verso la Patria fino al giorno glorioso del Signore" (Messale Romano, III Prefazio della Beata Vergine Maria), sia sempre presente allo sguardo dei credenti in questo ampio orizzonte di impegni!

Con tali auspici, imparto a tutti con affetto la mia Benedizione.

Dal Vaticano, 2 febbraio 1999.

 



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