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VIAGGIO APOSTOLICO IN COREA, PAPUA NUOVA GUINEA,
ISOLE SALOMONE E THAILANDIA

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AGLI AMMALATI DEL LEBBROSARIO DI SOROK DO

Isola di Sorok Do (Corea) - Auditorio dell'ospedale
Venerdì, 4 maggio 1984

 

Miei cari amici.

1. Mentre preparavo il lungo viaggio in Corea, non vedevo l’ora di visitarvi in quest’isola di Sorok Do. E quando poi ho ricevuto la vostra bella lettera, sono stato ancor più ansioso di venire da tutti voi: stare con voi, consolarvi, assicurarvi del mio amore.

Molte grandi religioni, come sapete, trovano la chiave per capire l’uomo nella sua sofferenza, dicendo che lo stesso atto di vivere è soffrire, o che la vita umana è un mare di sofferenza. Persino la Bibbia parla del sudore della fronte e delle doglie del parto come del prezzo del pane e della vita che nasce. Questa visione della condizione umana non è passività o rassegnazione. Piuttosto implica che noi, esseri umani, dobbiamo essere qualcosa di più di quello che siamo ora; noi siamo destinati ad essere salvati per diventare veramente noi stessi.

È un piacere per me sapere che voi, protestanti, cattolici e buddisti, voi tutti vivete insieme in sincera fratellanza. Forse è così perché avete sofferto tanto intensamente. Voi che siete cristiani credete veramente che Gesù portò le nostre sofferenze nel proprio corpo, così che “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5). Ed è di Gesù che oggi desidero parlarvi.

2. Durante la sua vita terrena, Gesù è stato particolarmente vicino a tutti quelli che soffrivano. Egli amava gli infermi. C’erano molti lebbrosi tra la gente del suo tempo e il Vangelo oggi ce ne dà un esempio. Rileggiamo questo passo del Vangelo con fede profonda: “Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. Ed ecco venire un lebbroso a prostrarsi a lui dicendo: "Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi"” (Mt 8, 1-2).

Gesù era appena sceso dal monte dove aveva lanciato un messaggio che ribaltava completamente l’usuale modo di pensare della gente. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati . . . Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5, 3-4.11-12). Quelle che la gente chiama sventure, Gesù le ha chiamate beatitudini. Fece questo perché redimendo la nostra sofferenza egli diede ad essa un immenso valore, che soltanto il cuore di un credente può conoscere.

3. Il Vangelo della sofferenza è necessario specialmente per voi che vivete in questo luogo: voi che siete stati colpiti dalla lebbra. È necessario per voi sapere che Cristo vi è particolarmente vicino. In questo Vangelo della sofferenza troviamo una lode per quelli che hanno perseverato attraverso prove imposte dalla sofferenza. Leggiamo: “Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riservò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione” (Gc 5, 11). Il compenso per la sofferenza umana è nella redenzione di Cristo, perché come dice san Paolo è attraverso le nostre sofferenze che noi “completiamo quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che e la Chiesa” (Col 1, 24).

All’indicibile angoscia della domanda “perché io?” Gesù offre la risposta vivente della sua morte sulla croce, poiché egli soffrì esclusivamente per gli altri, offrendosi in un amore senza fine. E da allora anche noi “portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4, 10). In questo modo possiamo capire come la sofferenza di Cristo, la morte e la risurrezione, il suo atto salvifico d’amore sia veramente la fonte della dignità di ogni sofferenza, così come la promessa della gloria futura che sta per esserci rivelata (cf. Rm 8, 18).

4. Nella sua lettera ai primi cristiani, san Giacomo raccomanda che se qualcuno di loro è malato i sacerdoti della Chiesa vadano da lui. Miei cari amici, vengo oggi da voi come sacerdote e vescovo, il Vescovo di Roma.

Come i sacerdoti della Chiesa primitiva, è mio desiderio pregare per voi, cantare per voi le lodi del Signore, ungervi con l’olio nel nome del Signore; e chiedo a Dio che la “preghiera fatta con fede” sia la vostra salvezza (cf. Gc 5, 13-15).

Possa il Signore elevarvi con la sua grazia, così che le vostre anime siano pronte per la gloria della vita eterna, e così che i vostri corpi, sfiancati dalla malattia, possano trovare conforto e forza in questa speranza, attraverso la quale le vostre anime vivono!

5. In conclusione, vorrei offrire una parola di saluto particolare al personale e a tutti quelli che assistono i malati di questo lebbrosario. Amici miei, il vostro è il servizio più nobile e altruista di umanità, che pochi sono disposti a rendere. E ancora, sono certo che voi siete quelli che ricevete di più, anche se date così generosamente. Poiché nel paradosso dell’amore è il debole che sostiene il forte, è il malato che cura il sano. Possa il Signore compensare i vostri cuori sensibili con gioia, pace e con un supplemento d’amore.

I miei ringraziamenti particolari vanno anche ai benemeriti membri dell’Associazione cattolica dei lavoratori del lebbrosario che, per oltre trent’anni, hanno instancabilmente servito i nostri fratelli sofferenti ad Anyang, a Ch’ilgok e altrove.

Possano tutti i pazienti del lebbrosario, possano tutti gli ammalati dimenticati e trascurati di questa terra e del mondo essere di nuovo felici ed essere consolati, nella consapevolezza di essere amati in modo, speciale, da Gesù, che soffrì affinché noi tutti potessimo condividere la sua nuova vita.

Miei cari amici, vi abbraccio nell’amore di Gesù Cristo, il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo!

 

© Copyright 1984 -  Libreria Editrice Vaticana

 



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