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VISITA PASTORALE IN LOMBARDIA E IN PIEMONTE

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA REGIONE PIEMONTE

Chiesa-Collegiata di Varallo - Sabato, 3 novembre 1984

 

Carissimi confratelli nell’episcopato
e carissimi fratelli nel sacerdozio di Cristo
.

1. Dà molta gioia al mio cuore incontrarmi con voi in questa nobile terra piemontese, nota al mondo come “patria dei santi”. E la gioia si accresce al pensiero del motivo che oggi ci ha raccolti in questa città di Varallo, sulla quale domina il santuario del Sacro Monte, che da secoli svolge un ruolo tanto significativo nella vita religiosa di questa regione. Il motivo è, appunto, il ricordo di un santo che, quattro secoli or sono, quasi presago dell’imminente sua fine, a quel santuario volle salire per disporsi nel raccoglimento e nella preghiera al grande passo.

San Carlo Borromeo! Come non provare nell’animo un fremito di commozione al pensiero che in questi luoghi, nel verde silenzio di queste vallate, san Carlo visse gli ultimi giorni del suo pellegrinaggio terreno? In quelle ore decisive, al cuore del vescovo, preoccupato del gregge che stava per lasciare, s’affacciarono probabilmente anche persone e comunità della vostra terra, a lui note per precedenti contatti pastorali. Le giurisdizioni ecclesiastiche del tempo e le vostre pie tradizioni confermano i numerosi legami che intercorsero tra le vostre Chiese e il grande arcivescovo di Milano, animatore instancabile del rinnovamento pastorale promosso dal Concilio di Trento.

Ci è quindi facile meditare insieme sugli insegnamenti e gli esempi di san Carlo per trarne orientamenti validi per la Chiesa di oggi; validi in particolare per tutte le vostre carissime Chiese del Piemonte, impegnate con tanto amore a permeare con i semi della salvezza evangelica le faticose realtà esistenziali di questa terra dalle antiche tradizioni cristiane.

2. Carissimi fratelli, da molti indizi è possibile concludere che l’uomo contemporaneo avverte un particolare bisogno di dissetarsi alle fonti perenni della vita, che sgorgano dalla Chiesa, per riuscire a costruire una società migliore. Ebbene, oggi occorre ritrovare una fiducia rinnovata in quello che la Chiesa, in stretta comunione con i suoi pastori, può comunicare ai fratelli, per promuovere l’uomo e favorire nuovi progetti di riconciliazione sociale e di recupero dei valori eterni. Sono certo che a questa missione di presenza evangelica, profezia di cose nuove, non potete e non intendete rinunciare, anche se le condizioni culturali dell’ambiente rendono a volte questa testimonianza tutt’altro che facile. Che cosa ci suggerisce san Carlo per un periodo come il nostro che, al pari del suo, viene dopo un Concilio e sembra dover concludere non solo un secolo, ma un’intera epoca storica? La prima indicazione che mi pare san Carlo ci offra per assicurare alla Chiesa una presenza pastorale incisiva nel mondo d’oggi è certamente da vedersi nell’impegno per la formazione del clero. Il seminario, vivaio insostituibile di vocazioni ecclesiastiche, e gli altri istituti per l’aggiornamento culturale e la formazione spirituale dei sacerdoti, appaiono anche oggi esigenze primarie di un progetto pastorale che voglia mantenersi aderente alla realtà ecclesiale. Ai sacerdoti, infatti, come a principali responsabili, spetta il compito di fondare sulla viva roccia che è Cristo le proprie comunità. E si rende sempre più evidente nella storia che dobbiamo essere preoccupati più della qualità che del numero dei sacerdoti. Quando san Carlo incominciò a farsi carico della cultura pastorale di Milano, non fu preso dal problema di quanti fossero i preti della diocesi, bensì da quello della loro formazione e della loro santità.

L’esempio di san Carlo, carissimi confratelli, mi porta ad incoraggiare le iniziative da voi intraprese per suscitare nuove vocazioni alla vita consacrata e per radicarle profondamente in tutti quei pii esercizi che l’esperienza cristiana dice necessari per una forte crescita spirituale. Parlo del ricorso alla direzione spirituale, della partecipazione fervorosa ai sacramenti e alla celebrazione dei misteri del Signore lungo l’anno liturgico, della pratica di una saggia austerità di vita in un mondo spesso succube del mito fallace del consumismo. Su questa via voi potete riportare la vita dei seminari a quelle nobili tradizioni spirituali che nel secolo XIX fecero del Piemonte una terra singolarmente fiorente di santità sacerdotale.

Carissimi fratelli, il Signore ci ha assunti per celebrare i suoi misteri tra gli uomini, fino a diventare il lievito di una nuova civiltà. Occorre formarci immergendoci, come san Carlo, nel mistero della croce e imparare dalla morte del Signore la scienza dell’amore, che sola può aiutare noi e i nostri fratelli a vivere della vita nuova che Cristo ci ha portato. Se ci lasciamo afferrare dal fascino dei divini misteri, impariamo la scienza necessaria per percorrere salvificamente anche i sentieri degli uomini.

3. Carissimi, la seconda indicazione che san Carlo ci offre per una presenza incisiva nel mondo contemporaneo è quella di un impegno prioritario nella catechesi degli adulti. La profonda esperienza della teologia della croce spinse san Carlo, fin dalla sua giovinezza, a scoprire nella predicazione della parola del Signore, il vero fondamento di ogni umana esperienza. Quanto più si tuffava nella meditazione della morte del Signore, tanto più avvertiva che a salvare l’uomo è l’amore; ma quanto più viveva con gli uomini, tanto più scopriva che ben pochi, a quel tempo, si curavano di portargli quella lieta notizia.

È commovente, oltre che edificante, rilevare l’eroismo ascetico col quale san Carlo si impose di predicare il Vangelo al gregge che gli era stato affidato. Non alludo soltanto alle resistenze superate in Roma, per lasciare la prestigiosa carica di primo segretario di Stato nella storia della Chiesa; colpisce ancora di più la tenacia del suo carattere nel vincere alcune personali difficoltà psicologiche, che avrebbero potuto giustificarlo nell’adattarsi all’uso corrente di lasciare l’evangelizzazione ai grandi predicatori di cartello. Era molto timido, aveva un grave difetto di pronuncia, era spiccatamente labile di memoria. San Carlo vinse ad una ad una tutte queste difficoltà. Il motto “Humilitas” non fu per lui un blasone di maniera. Pur di annunciare la parola, di evangelizzare, di fare catechesi, non badò a se stesso, sfidò il rischio dell’insuccesso, si avventurò fra gli uomini, come l’apostolo Paolo, “in infirmitate et timore et tremore multo”, fidando “non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione Spiritus et virtutis” (1 Cor 2, 3-4). E giunse alla fine a predicare il Vangelo con tale trasporto da avvincere le folle e portarle alla commozione e alle lacrime, specialmente quando parlava delle più grandi manifestazioni dell’amore del Signore.

Quale conforto viene anche a noi dalla testimonianza del Borromeo! Se si considera che l’ignoranza delle cose di Dio, oggi, non è minore che ai tempi suoi e che per annunciare il mistero di Cristo è necessario superare il muro culturale che ci divide dai nostri fratelli, possiamo ben confessare che neppure a noi manca la nostra croce. Come si può presentare l’intero mistero di Cristo all’uomo del nostro tempo, frastornato da mille proposte, promesse, minacce con cui i mass-media lo assediano da ogni parte?

4. Non posso certo presumere, in un breve incontro come questo, di rispondere a tutti i vostri interrogativi e di dare una soluzione adeguata al problema. Ma vi dico che sono con voi, che condivido le vostre trepidazioni e comprendo le vostre stanchezze. Vorrei, con la mia presenza e con la mia parola, innanzitutto, ridare lena ai vostri propositi, ravvivando in voi l’ottimismo e la speranza. Vorrei, poi, esortarvi a introdurre tutte quelle iniziative che possono servire a mettere in risalto la centralità della catechesi degli adulti in ciascuna delle vostre Chiese. Urge far comprendere, con i gesti e con le parole, la principalità dell’annuncio cristiano, principio impreteribile di una visione evangelica della vita e del mondo. “In principio erat Verbum”; l’affermazione dell’apostolo Giovanni vale anche per le vostre comunità: al principio della vita di ogni comunità cristiana sta la parola di Dio.

Annunciamola, dunque, questa parola nel mondo contemporaneo, nel quale la Provvidenza di Dio ci ha posto a vivere! Annunciamola a partire dai piccoli, dai fanciulli, dagli adolescenti: ogni inizio è importante perché, in qualche misura, decide le sorti di ciò che sarà. Oggi poi si esige uno sforzo particolare di tutta la comunità cristiana perché non venga a mancare ai giovani l’insegnamento religioso nella scuola, momento fondamentale dell’iter formativo delle nuove generazioni.

È chiaro però che tutto ciò non basta. Occorre annunciare la parola di Dio agli adulti, che sono i veri responsabili delle strutture sociali e della storia della nazione. Se nell’impatto con la cultura moderna essi lasciano spegnere i valori morali, umani e cristiani, che hanno la loro radice nel Vangelo, anche senza volerlo e talora senza saperlo essi si fanno deformatori della coscienza dei giovani. L’esperienza insegna che la stessa catechesi dei fanciulli e dei giovani non incide durevolmente, se la testimonianza degli adulti va in senso contrario all’educazione della fede cristiana. Carissimi fratelli, noi non possiamo darci pace, se non risolviamo il problema della catechesi degli adulti. Occorre infatti riconoscere con franchezza che senza la partecipazione responsabile di una comunità cristiana adulta, cresciuta nella parola, nella celebrazione del memoriale di Cristo e nella testimonianza della carità, è un’utopia pensare di evangelizzare il mondo contemporaneo.

5. Di questo, sono certo, siete persuasi. Resta, tuttavia, la domanda sul come, in concreto, questo dialogo catechetico con gli adulti possa essere ripristinato. Pur nella diversità dei tempi e delle condizioni sociali, penso che l’esempio di san Carlo possa offrirci un orientamento sostanzialmente valido tuttora. Perché il Borromeo con tanta insistenza ha voluto portarsi a vivere con i suoi fedeli nella città di Milano? Perché debole di salute, ma ardente nell’amore pastorale, ha visitato tanti luoghi per condividere le sofferenze dei fedeli nei loro territori, facendosi a loro padre e fratello? La risposta mi pare molto chiara: perché aveva capito che un dialogo non è possibile se non avvicinando personalmente l’interlocutore. Non era stato questo, d’altra parte, lo “stile pastorale” di Gesù stesso, paradigma supremo di ogni annunciatore del Vangelo? Sull’esempio di Cristo anche noi, pastori della Chiesa alle soglie del Duemila, abbiamo il dovere di metterci generosamente in compagnia degli uomini. Avviciniamoli con amicizia, facciamo sentire loro il nostro amore, visitiamo le loro case, mettiamoci a mensa con loro nel quartiere, solidarizziamo con le loro responsabilità e con le loro tribolazioni. È solo conoscendoli da vicino, è solo facendo vedere che la Chiesa è amica degli uomini, che noi ci rendiamo credibili e riusciamo ad intrecciare un dialogo tanto più comunicativo quanto più è comprensivo della loro realtà esistenziale. Specialmente quando la sofferenza li tocca, essi devono sentire questa nostra partecipazione: attraverso la sincerità della nostra condivisione essi potranno rendersi conto dell’autenticità del nostro amore.

E quando il dialogo è avviato, non temiamo di manifestare loro il mistero di Cristo nella sua verità integrale, in sintonia col magistero della Chiesa. L’amore di Cristo non ci consente attenuazioni in questa totalità. La cultura di oggi, talora ci contraddice in modo blasfemo, altre volte sorride in modo ironico; ma il cuore dell’uomo nel suo profondo attende: tutto l’uomo attende tutto il Cristo.

6. Nessuna manipolazione, dunque, nessuna ermeneutica accomodante per adattare il Cristo al gusto delle culture, ma trepidante fedeltà nel credere che è solo l’autentica parola di Cristo che può salvare l’uomo. Cristo conosce così profondamente gli uomini che nessun rimedio è più adatto alla natura dell’uomo ammalato di ogni tempo, dell’integrità del suo mistero.

Nella vita di san Carlo si legge che egli non fu sempre gratificato da un annuncio così coraggioso; il “memorandum” da lui scritto dopo la peste è venato di dolore, come se volesse confidare che nonostante tutto non avevano creduto alla sua parola. Ma il mistero dell’amore di Dio che salva l’uomo morendo su di una croce, è un mistero così grande che va proclamato per se stesso, gratuitamente, qualunque sia l’accoglienza che gli uomini gli riservano.

È precisamente la conclusione a cui arriva san Carlo, parlando ai suoi sacerdoti al termine dell’ultimo Sinodo diocesano, il 21 aprile 1584, pochi mesi prima di morire. Con accenti infuocati egli esclama: “O si consideraremus et nos quis sit Deus, qui nos dignatur aspicere, cui tam gratum est quidquid pro animarum salute fit, quam avide et prompte curreremus omnes dicentes: Domine, ecce ego, mitte me in Rhetos, in montes, in loca pauperrima, in eremos et silvas, ubi nec panis, nec acqua sit, ubi non nisi barbari homines et impiissimi tyranni, corpus meum dilacerare parati, reperiantur. Ibo quocumque volueris, modo tibi gratum esse comperiam, nullum aliud praemium expetam, nisi teipsum et gratiam tuam” (Sancti Caroli Borromaei, Orationes XII, Romae 1963, p. 177).

Con queste parole, brucianti di zelo apostolico, mi piace concludere questo nostro incontro, carissimi fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio. Nell’invocare dal Signore che, per intercessione di san Carlo, voglia ravvivare nei vostri animi quella fiamma che arse nel cuore del grande arcivescovo fino a consumarlo, imparto con fraterno trasporto a tutti voi la mia benedizione, affidandovi l’incarico di parteciparla, quale pegno dell’affetto del Papa, alle care popolazioni fra le quali svolgete, con generosa dedizione, il vostro ministero pastorale.

 

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