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VISITA PASTORALE  IN VENETO

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON GLI ARTISTI DEL TEATRO « LA FENICE »

Venezia - Domenica, 16 giugno 1985

 

Onorevole Signor Ministro,
Illustri e cari Signori!

1. In questo Teatro, simbolo prestigioso delle tradizioni musicali veneziane, sento di dover esprimere ammirazione per quanto io qui vedo e riconoscenza per l’amabile invito che mi è stato rivolto. Ed è a questi sentimenti che s’ispira il saluto deferente che molto volentieri porgo al Signor Sindaco, nella sua qualità di Presidente dell’Ente Autonomo del Teatro, ringraziandolo per le parole rivoltemi, come pure al Soprintendente agli Artisti e ai Tecnici, a tutti voi infine, cittadini e ospiti, che partecipate al lieto incontro di stasera.

Sono lieto di essere qui, all’interno di questa sede teatrale, in cui si affermarono negli ultimi due secoli, cioè dall’epoca in cui La Fenice fu costruita, le opere di grandi geni dell’arte musicale. Io mi sento onorato per essere in mezzo a voi, artisti d’oggi, che continuate - nel modo quale richiedono la genialità e la libertà della creazione artistica - questa stessa tradizione; e ancora perché con voi sono presenti i dirigenti e i responsabili delle università, delle grandi scuole e degli istituti culturali che qualificano la vita di Venezia, come la Biennale, l’Ateneo Veneto, la Fondazione Giorgio Cini, l’Istituto Veneto per le Scienze, Lettere e Arti, la Fondazione Bevilacqua-La Masa, il Centro di cultura di palazzo Grassi, il Conservatorio Benedetto Marcello, l’Accademia delle Belle Arti, la Fondazione Levi, la Querini-Stampalia, la Deputazione di Storia Patria, l’Università Popolare e altre ancora. A tutte queste istituzioni va il mio augurio, come a tutte le Autorità accademiche, che sono qui convenute, va il mio saluto perché lo estendano poi ai loro collaboratori nelle rispettive sedi.

2. Lasciate che ora condivida con voi, come già feci alla Scala di Milano, qualche riflessione intorno ai valori altamente umani dell’arte. Già appare straordinario il fatto che Venezia, secondo una sua immagine, universalmente nota nel mondo, sia una Città che non solo ha in sé accolto e promosso ogni espressione artistica, ma si è fatta essa stessa arte, divenendo quasi - voglio dire - luce, colore, linea, spazio e armonia.

Stupisce certo la sua storia di città marinara e mercantile, che ha saputo tradurre in ricchezza culturale la grandezza conseguita in tali settori. I suoi uomini di governo, le grandi figure del patriziato e il popolo stesso nella trama varia delle professioni artigiane, tutti hanno amato le bellezze della pittura, della musica e dell’architettura, e così l’hanno fatta diventare “civitas”, che in fondo vuol dire “civilitas”: ecco la civiltà della Repubblica Serenissima. Qualcuno ha detto - e mi sembra molto bello - che Venezia è come un’architettura che addobba lo spazio reso luce dall’acqua e dal cielo. I nomi, che in proposito si dovrebbero ricordare, sono scritti nei grandi cicli pittorici e nelle grandi composizioni musicali, oltre che architettoniche, che danno figura ad ogni spazio, sia religioso che civile, di questa città umanissima. Qui, davvero, il “segno” dell’arte ha parlato la lingua universale del bello.

Si dice che Venezia sia cosmopolita. Ma forse è più esatto dire che Venezia è la città dell’uomo, da qualunque luogo egli venga e qualunque sia l’identità etnica e culturale che lo qualifica. Città d’incontro, quindi, e città generatrice di vera umanità. Vorrei citare un solo dato a conferma: ancor prima che la Serenissima volgesse al tramonto come Stato autonomo, la “diaspora” degli artisti veneziani portò l’umanità culturale di Venezia nel mondo, lasciando un segno inconfondibile nella formazione della civiltà moderna. Con il Tiepolo in Spagna, con Goldoni e i Piranesi a Parigi, con i Canaletto in Inghilterra, con i Bellotto a Praga e a Varsavia, con i Quarenghi e i Gonzaga in Russia, con il Da Ponte a New York. E inoltre: con i melodrammi e i musicisti veneziani nelle capitali europee, asiatiche, americane. Né si debbono dimenticare tutte le forme e opere d’arte elaborate dalla civiltà veneziana, presenti in tutti i grandi musei e collezioni di Occidente e di Oriente. Ben nota nel mondo, inoltre la Biennale di arte, che tanta fama ha saputo conquistarsi nella sua ormai quasi secolare esistenza.

3. Che può dire la Chiesa di fronte a questa esperienza plurisecolare ed esemplare? L’arte è esperienza di universalità. Non può essere solo oggetto o mezzo. È parola primitiva, nel senso che viene prima e sta al fondo di ogni altra parola. È parola dell’origine, che scruta, al là dell’immediatezza dell’esperienza, il senso primo e ultimo della vita. È conoscenza tradotta in linee, immagini e suoni, simboli che il concetto sa riconoscere come proiezioni sull’arcano della vita, oltre i limiti che il concetto non può superare: aperture, dunque, sul profondo, sull’alto, sull’inesprimibile dell’esistenza, vie che tengono libero l’uomo verso il mistero e ne traducono l’ansia che non ha altre parole per esprimersi. Religiosa, dunque, è l’arte, perché conduce l’uomo ad avere coscienza di quell’inquietudine che sta al fondo del suo essere e che né la scienza, con la formalità oggettiva delle sue leggi, né la teorica, con la programmazione che salva dal rischio d’errore, riusciranno mai a soddisfare.

Forse è proprio dell’arte dar risposta al dramma vissuto da Sant’Agostino, quando sentendo di poter generalizzare la propria esperienza personale, arriva ad affermare che “è inquieto il nostro cuore, o Signore, finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessiones, I, 1). L’arte non apre all’inconscio, ma al più conscio; porta l’uomo a se stesso e lo fa essere più uomo. Per questo, essa è anche educazione, palestra e scuola di più alta umanità.

L’arte consuma l’artista e in lui consuma l’egoismo dell’uomo. L’artista si abbandona al richiamo, che viene da un punto che sta oltre a lui, e consegna tutto se stesso all’inesprimibile. L’opera d’arte - così confessano gli artisti - è conflitto, è travaglio, è lotta, in cui l’uomo deve arrendersi al richiamo più profondo del suo essere. Per questo si deve pensare che l’arte è un sentiero che porta verso Dio. Essa è una “grazia” data ad alcuni, perché questi aprano la via agli altri. Se la cultura è l’atto con cui l’uomo prende autocoscienza critica di sé, allora la parola della poesia è la sua manifestazione privilegiata.

La Chiesa, pertanto, sente di dover ricordare a se stessa e agli uomini tutti che anche l’arte è, a suo modo, rivelatrice di trascendenza. E ciò non manca di fare, quando si presenta un’opportuna occasione, quale quella di stasera. Ma ciò fa anche - vorrei aggiungere - con la sua liturgia, che è parola, simbolo e gesto, e quindi arte. Nella liturgia c’è poesia espressa nei “segni” che conducono l’uomo verso Dio, il quale viene a lui incontro. Bellezza e verità - ci insegnano i Padri - si richiamano reciprocamente. Esse sono i nomi di Dio che, in Cristo, hanno preso la forma perfetta dell’Amore. Forma umana, che divenne parola e gesto. Parola divenuta carne: uomo, perciò, e riconoscibile.

4. Vi ringrazio, cari Signori, per l’opportunità che mi avete offerto tanto amabilmente di poter esprimere questi pensieri dinanzi a voi. Questo è un luogo che è oltre, è più in alto della realtà, che tanto spesso è disarmonica, tesa, conflittuale e prosastica. Ma quello che qui “accade” non deve mai farci dimenticare dove oggi si trova l’uomo e come oggi egli vive. È un invito e una preghiera: a voi artisti e uomini di cultura. Amate il dono che si sprigiona dall’interno di voi. Fatelo diventare linguaggio che parla in ognuno, secondo i simboli del suo talento. Fatelo diventare parola che unisce, eco della stessa Parola vivente, il “Logos” divino che era in principio presso Dio, per cui tutte le cose furono fatte e che si fece “carne”, cioè uomo tra gli uomini (cf. Gv 1, 1-14), per salvarli. Di Lui è ricolma la “Basilica d’oro”, il vostro San Marco, nel quale sono custoditi, quasi in scrigno prezioso, gli splendidi mosaici che ripropongono, con tratti di rara potenza espressiva, i momenti salienti della Creazione e della Redenzione.

Anche voi, mettendo a frutto i doni ricevuti seguendo il soffio dell’unico suo Spirito, potete far eco a questa Parola senza cedere alle mode o alle convenienze, ma con l’originalità che vi è propria pagando anche il prezzo della solitudine o dell’incomprensione.

Senza l’arte il mondo perderebbe la sua voce più bella. Sta a voi coltivarla e svilupparla: sta a voi conferirle o ridarle l’innata forza creativa, sforzandovi con umiltà ma anche con coraggio di interpretare la parola stessa con cui Dio guardando l’opera delle sue mani disse con stupore che quel che aveva fatto era veramente bello: “E Dio vide che era cosa buona . . . E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona” (Gen 1, 12-18. 25. 31).

La voce che la Chiesa rivolge da sempre agli artisti, voce di cui mi faccio eco stasera dinanzi a voi tutti, si muove in quest’ordine di idee: essa parte dalla visione del “Logos” creatore e redentore e si traduce in invito, fiducioso e fraterno, a operare anche voi secondo le categorie del bello e del buono. Sia sempre quel che fate molto bello e molto buono!



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