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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO MONDIALE
DELLA PASTORALE DELL'EMIGRAZIONE

Giovedì, 17 ottobre 1985

 

Signor Cardinale,
cari Fratelli e Sorelle.

1. Il Papa si deve dedicare ad accogliere al meglio, nella sua casa, coloro che si preoccupano così bene dell’accoglienza degli stranieri, dei migranti! Il vostro Congresso mondiale della pastorale dell’emigrazione vuole approfondire, nel corso delle sue giornate di studio, non soltanto i problemi dell’accoglienza, ma anche quelli dell’integrazione dell’emigrante. Mi auguro che i vostri scambi fraterni, le vostre analisi lucide delle situazioni, le vostre riflessioni evangeliche, i vostri orientamenti teorici e pratici costituiscano uno stimolo efficace per tutti coloro che, preti, religiosi e laici, contribuiscono a questa integrazione nella Chiesa e nella società. Voi lo sapete, per la mia carica io sono molto preoccupato di fare in modo che ciascuno si ponga come parte integrante nell’unità della Chiesa, rispettoso della diversità. Sono allora felice di esprimervi i miei incoraggiamenti e di ricordare alcuni aspetti che potranno portare una luce supplementare sulla complessità dei vostri lavori.

2. Voi avete voluto sviluppare l’idea che l’integrazione ecclesiale degli emigrati è l’esercizio di un diritto fondamentale che tocca la libertà e la dignità della persona. Lo dicevo io stesso nell’enciclica Laborem exercens: “L’uomo ha il diritto di lasciare il suo Paese d’origine per diversi motivi - come anche di ritornarvi - e di cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese” (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 23). Questa esperienza non può essere positiva se l’emigrato - a causa del suo lavoro - non beneficia di un’integrazione economica, sociale, ecclesiale, che gli permetta degne condizioni di vita e di progresso, sempre nel rispetto della sua personalità, delle sue radici. Tutto il problema sta dunque nel sapere come si può esercitare questo “diritto”.

3. Ma prima di continuare, attiro la vostra attenzione sugli aspetti della questione, affinché tutto sia considerato da un punto di vista giusto, equilibrato, realista. In sé, una tale emigrazione costituisce spesso un dramma; è una prova, si potrebbe anche dire, sotto certi punti di vista un male, un male necessario. È vero per la persona che emigra, per la sua famiglia, che si appresta ad attraversare una fase difficile, con tutti i rischi dello sradicamento; è vero per il suo Paese d’origine, privato d’un soggetto che arricchiva la sua vita, la sua cultura, il suo progresso. Si sarebbe tentati di augurarsi che gli emigrati possano ritornare liberamente nella loro patria.

A maggior ragione, se si tratta di rifugiati che hanno dovuto subire l’esilio per sfuggire alla paura, alla guerra, all’ingiustizia, all’oppressione ideologica, la soluzione migliore - come ho già avuto occasione di dire - è, al di là dei lodevoli e necessari sforzi di integrazione, il rimpatrio volontario con delle garanzie di sicurezza (cf. Giovanni Paolo II, Allocutio in urbe “Yaoundé” habita, 12, 12 agosto 1985: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/2 [1985] 344s.; cf. anche Giovanni Paolo II, Allocutio ad Exc. mos Viros nationum Legatos apud Sedem Apostolicam habita, 6, 15 gennaio 1983: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/1 [1983] 126 s.). Non si può dunque considerare a priori ogni emigrazione come un fatto positivo, da ricercare e da promuovere.

Un’altra nota generale è che, in questo campo come in altri, non si può parlare di “diritto”, per l’emigrante come per il Paese di accoglienza, senza parlare di “doveri”, di doveri reciproci. E se il Paese di accoglienza deve comprendere il dovere di aiutare gli emigrati a vivere - soprattutto se si tratta di accordare loro il diritto d’asilo, che è un diritto stretto -, può esso fare appello alla solidarietà degli altri Paesi, per non essere il solo a sopportare dei carichi che oltrepassino le sue forze e mettano in pericolo il bene dei suoi cittadini che è il primo suo dovere. Ma poiché queste considerazioni sono poste al fine di tenere un discorso responsabile, resta il fatto che l’emigrazione, soprattutto per ragioni di lavoro, è un fenomeno in continua espansione nelle nostre società moderne; un fenomeno destinato senz’altro a crescere poiché la ricerca di un lavoro o di migliori condizioni di vita comporta una necessaria mobilità. Nello stesso tempo si assiste alla permanenza del fenomeno dei migranti: la maggior parte di loro, soprattutto quelli della seconda generazione, vuole restare nel Paese in cui finalmente ha trovato una sicurezza di vita maggiore che nel proprio Paese di origine. Ciò implica che essi possano inserirsi e integrarsi al meglio. Ed è questo l’oggetto dei vostri lavori.

Inoltre si può trarre un bene da questa prova dell’emigrazione: l’avanzata verso una società culturalmente più ricca nella sua diversità e, speriamolo, più aperta nelle relazioni fraterne. Sembra infatti che, nei Paesi tecnicamente avanzati, si vada verso società plurietniche, multiculturali. In questo senso l’emigrazione può essere essa stessa una possibilità di progresso. Ma a quali condizioni?

4. Voi affrontate precisamente le difficoltà dell’integrazione, gli ostacoli che essa incontra, le tentazioni che appaiono da una parte e dall’altra. Poiché se bisogna evitare che i migranti vivano totalmente a spese degli altri, che formino un mondo a parte, bisogna anche evitare che siano costretti a lasciarsi “assimilare”, assorbire, al punto di diluirsi nella società circostante, rinunciare alla loro ricchezza originale, alla loro identità. Occorre fare di tutto affinché essi partecipino, con la loro eredità, al bene comune culturale, spirituale, umano dell’insieme nazionale al quale essi si aggregano. Ciò suppone apertura, rispetto reciproco, dialogo, partecipazione, scambio di tutte le parti.

Coloro che li accolgono, devono essere molto attenti, non solo ai bisogni, ma anche alla personalità dei migranti; devono comprendere le esigenze della condivisione e del rispetto, bandendo qualsiasi spirito di sufficienza, d’orgoglio, d’egoismo, ricordandosi che i beni hanno destinazione universale, che tutti i lavoratori e le loro famiglie hanno diritto alle stesse garanzie delle leggi. Questo spirito di equità è tanto più necessario quando il rifiuto dello straniero è una forte tentazione nel caso il Paese conosca una crisi industriale grave, che comporta disoccupazione, soprattutto se un’ideologia razzista cerca di legittimare questo movimento istintivo di protezione.

Coloro che arrivano, da parte loro, devono superare innumerevoli disagi, tra cui spesso quello della lingua e del decalogo culturale, della precarietà delle condizioni di vita, delle misure amministrative. Essi non devono quindi cedere alla tentazione di un ripiegamento su se stessi, della vita in “ghetto”, in un complesso di isolamento o di inferiorità. Essi devono testimoniare in modo pacifico la fedeltà alle loro origini, e particolarmente la fedeltà alla loro fede.

5. In tutto ciò la Chiesa ha un ruolo educativo capitale da svolgere presso il popolo, i responsabili e le istanze della società: illuminare l’opinione pubblica e stimolare le coscienze. Ma essa deve essere testimone della qualità dell’integrazione che pratica nel suo seno. Non è essa il “sacramento dell’unità”, che accoglie nell’unità la diversità dei cattolici, testimoniando la riconciliazione che il Cristo ha ottenuto con la sua croce? Le comunità cristiane dovrebbero vivere, meglio degli altri gruppi sociali, questa dinamica dell’unità fraterna e del rispetto delle differenze. Grazie allo Spirito Santo, esse devono lavorare all’edificazione incessante di un popolo di fratelli, che parlino il linguaggio dell’amore per essere fermento della costruzione dell’unità umana, della civiltà dell’amore.

Che i pastori vi si impegnino. Che essi chiamino ed educhino costantemente al dialogo, lottando contro il peso delle mentalità e delle abitudini contrarie a questa legge dell’accoglienza del “fratello straniero”. Certamente, la Chiesa ha previsto delle tappe e dei collegamenti di questa integrazione ecclesiale: parrocchie, elemosine, “missiones cum cura animarum”. Questi collegamenti sono sovente necessari, occorre tuttavia che essi evitino di fermarsi su se stessi e di nuocere agli scambi indispensabili. Ma anche che, in nome dell’unità non si affrettino delle evoluzioni che potrebbero chiedere del tempo: ciò significherebbe privarsi di patrimoni che devono arricchire e fecondare un modo comune d’essere, l’arte del “vivere insieme”.

6. Quanto ai migranti per i quali non ci può essere ancora direttamente questione di integrazione ecclesiale, che la Chiesa, madre ed educatrice, ricordi a tutti il loro diritto di voler restare nelle nuove condizioni di esistenza, nella solidarietà con gli altri, di non essere ridotti a un semplice ruolo di strumenti di produzione, di partecipare alla vita sociale del Paese e anche a certe istanze della vita politica. C’è molto da fare affinché i migranti beneficino di uno statuto che dia loro il diritto di vivere la loro originalità nella solidarietà nazionale. Ciò è più complesso e più difficile che una semplice misura di “naturalizzazione”.

7. Su tutti questi punti, la Chiesa si farà la voce dei senza-voce, il buon samaritano attento alle situazioni difficili, che non si accontenta di gesti paternalistici, ma che aiuta i migranti a prendersi carico di loro stessi. Essa sarà l’immagine e il lievito di una comunità di fratelli.

È vostro onore parteciparvi a titolo speciale, per coinvolgere i vostri fratelli e le vostre sorelle, le comunità cristiane in una presa di coscienza e in un’azione che risponda all’istanza di Gesù: “Io ero straniero e voi mi avete accolto” (Mt 25, 35). Mi auguro che voi non vi accontentiate di rilevare gli ostacoli o le cose che bisogna fare, ma che, umili e coscienti dell’ampiezza del vostro compito, sappiate mettere in luce i magnifici sforzi che sono già stati tentati o realizzati in simili situazioni, in modo da incoraggiarli. Non è forse il modo migliore per stimolare l’integrazione desiderata?

Imploro su di voi e su tutti coloro che rappresentate la grazia della luce e della forza dello Spirito Santo e, di tutto cuore, vi benedico.



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