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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AD UNA RAPPRESENTANZA DI GIORNALISTI

Venerdì, 28 febbraio 1986

 

Signori giornalisti, cari amici giornalisti!

1. Sono lieto di questa udienza, come di ogni incontro con esponenti del mondo giornalistico, che sento vicino e apprezzo molto. Voi siete operatori, servitori, artisti della parola. Svolgete ruoli importanti e delicati, molteplici in se stessi e nelle loro irradiazioni. Molti aspetti del vostro nobile e arduo lavoro vi offrono particolari opportunità di cooperare con la missione tipica della Chiesa, che è quella di annunziare la Parola. Questa singolare affinità spiega l’attenzione che la Chiesa ha avuto e ha per voi. È perciò con sentimenti di stima, di comprensione e di amicizia, che vi accolgo e vi porgo il mio fervido saluto.

Saluto innanzi tutto i dirigenti dell’Unione cattolica della stampa italiana del Lazio, e li ringrazio per aver promosso, come altre volte agli inizi dell’anno, la simpatica iniziativa che vi ha qui convocati. Uno speciale pensiero rivolgo ai familiari che vi accompagnano. La vostra gradita presenza, cari fratelli e sorelle, accentua il clima di cordialità che pervade il nostro incontro. Grazie anche a voi, dunque, per la vostra partecipazione.

2. La “ricerca di una nuova identità del giornalista” è il tema della tavola rotonda a cui vi siete or ora applicati, quasi a preludio di questo incontro.

È un problema importante. In certo modo, è problema di sempre. Il giornalista che vuole esercitare con serietà la sua professione - qualunque sia il settore affidatogli nel vastissimo campo dei “mass-media” - si scopre incessantemente sollecitato a un’analisi del genere, per una sempre maggior presa di coscienza delle sue funzioni e della sua responsabilità nel mondo contemporaneo. Nel nostro tempo tale ricerca riveste urgenze particolari. Il giornalismo, infatti, viene a trovarsi ai crocevia dei fenomeni che segnano le vertiginose trasformazioni dell’era planetaria.

Trasformazioni di mentalità e di modi di vivere, in stretta dipendenza dalle accelerazioni della cosiddetta rivoluzione tecnologica, le quali determinano in larga misura i mutamenti che tutti conosciamo nell’assetto della società e sul volto della civiltà. Nascono esigenze e richieste nuove. Accanto a nuove risorse, sorgono nuove difficoltà.

3. Grandi scelte si impongono. Ma si impone previamente una scelta di fondo, che tenga presente lo scopo originario del giornalismo degno di questo nome: cioè il servizio della comunicazione sociale, destinata ad arricchire il patrimonio conoscitivo e formativo individuale e ad offrire alla comunità un efficace strumento di crescita civile, spirituale e morale.

Il criterio di base, a cui è connessa la soluzione dei vari problemi emergenti, non può essere che il rispetto della verità. Un rispetto assoluto e totale, sganciato da ogni equivoco, alieno di ogni sofisma. Coniugato invece con quelle doti umane che fanno naturale corona alla verità e intessono il prezioso corredo della serietà e della probità professionale.

Coinvolto inevitabilmente nella potenza e rapidità dei mezzi di diffusione, quali la tecnica offre, il giornalista non può non sentire il peso della propria responsabilità. Così egli deve essere l’uomo della verità. L’atteggiamento che assume nei confronti della verità qualifica in modo definitivo la sua carta d’identità, anzi la statura della sua professionalità come operatore dell’informazione, in direzione di una duplice fedeltà: anzitutto alla propria missione; poi al patto di fiducia con coloro ai quali è rivolto il suo servizio. Bisogna avere il coraggio e la sincerità di proclamare apertamente che tutte le forme di falsificazione e di deformazione - di cui non mancano purtroppo clamorosi esempi - sono un vero e proprio snaturamento del giornalismo. Le associazioni e le organizzazioni di categoria, specialmente quelle cattoliche, non possono esitare a farne un punto qualificante nella trattazione della problematica corrente.

4. Il rispetto della verità richiede un impegno serio, uno sforzo accurato e scrupoloso di ricerca, di verifica, di valutazione. Su questo punto vorrei restringere per un momento lo sguardo all’orizzonte ecclesiale.

Il mio predecessore Giovanni Paolo I - il quale, come sapete, aveva avuto una singolare familiarità col giornalismo - proprio in quest’aula, tra le affabili espressioni che rivolse ai rappresentanti dei mezzi di comunicazione sociale, sottolineò la necessità di “entrare nella visuale della Chiesa, quando si parla della Chiesa”. E aggiunse: “Vi chiedo sinceramente, vi prego anzi di voler contribuire anche voi a salvaguardare nella società odierna quella profonda considerazione per le cose di Dio e per il misterioso rapporto tra Dio e ciascuno di noi, che costituisce la dimensione sacra della realtà umana” (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, p. 37). Questa, cari amici giornalisti, è anche la mia richiesta e il mio invito.

Seguendo, per quanto possibile, le vostre corrispondenze - che sono uno degli strumenti per il mio colloquio con le più varie manifestazioni del pensiero - rilevo con gratitudine l’apporto che voi date alla conoscenza della realtà ecclesiale. Ma non è sempre così. Talvolta la “visuale della Chiesa” è ignorata e deturpata. Insegnamenti e attività, invece di essere passati al vaglio di una serena acribia, soggiacciono ad analisi pregiudiziali, nelle quali l’interpretazione soggettiva sacrifica o annulla l’informazione oggettiva. Allora la ferita è inferta, prima ancora che alla Chiesa, alla verità.

Questa osservazione, pertanto, pur riguardando la Chiesa, si estende all’intero dinamismo della verità, che abbraccia tutti i genuini valori. Basti notare che la verità è l’indissolubile alleata della libertà d’espressione, e quindi il principale coefficiente di progresso in tutti i campi del vivere umano. Non per nulla i regimi oppressori della libertà creano a proprio uso e consumo “verità” che invece sono plateali menzogne.

Viene, qui, spontaneo, il richiamo all’eroica figura del sacerdote carmelitano Tito Brandsma, che ho avuto la gioia di ascrivere tra i beati. Valoroso giornalista, internato e ucciso in un campo di morte per la sua strenua difesa della stampa cattolica, egli resta il martire della libertà di espressione contro la tirannide della dittatura.

5. Impegni e responsabilità peculiari sgorgano dalla vocazione cattolica al giornalismo. Nella fervida stagione - anche se non priva di difficoltà - che stiamo vivendo a vent’anni dal Concilio e dopo la recente assemblea straordinaria del Sinodo che del Concilio ha riproposto orientamenti e direttive, i mezzi di comunicazione sociale dichiaratamente cattolici o di ispirazione cattolica sono chiamati ad assolvere ruoli di profonda incidenza, fornendo notizie e giudizi illuminati da vera fede ecclesiale.

Mi limito a ricordare il contributo al dialogo che la Chiesa ha intrecciato e va assiduamente sviluppando a molteplice raggio sia a livello umano che religioso, sia nel proprio ambito interno. Rimangono di viva attualità i capitoli che a questo affascinante tema ha dedicato Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam, nei quali egli affida anche alla stampa le sue lungimiranti sollecitudini sull’argomento.

Nella circolazione dell’umano discorso, il dialogo “indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva e abituale, la vanità di inutile conversazione. Se certo non mira a ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni” (Ecclesiam Suam, 81).

Queste caratteristiche qualificano il rapporto di dialogo intraecclesiale, che deve irrobustire l’unità attraverso la voce delle legittime varietà, e formare un’opinione pubblica sempre più consapevole e matura. Un dialogo, perciò, “intenso e familiare”, “sensibile a tutte le verità, a tutte le virtù, a tutte le realtà del nostro patrimonio dottrinale e spirituale”, “pronto a raccogliere le voci molteplici del mondo contemporaneo”, “capace di rendere i cattolici uomini veramente buoni, uomini saggi, uomini liberi, uomini sereni e forti”, come ancora ha scritto il mio predecessore nella Ecclesiam Suam (Ecclesiam Suam, n. 117).

Compiti tanto gravi e delicati richiedono quell’arricchimento interiore, che il cattolico ricava da una costante formazione spirituale. Tito Brandsma non avrebbe potuto essere il docente, il giornalista, lo scrittore che è stato nel vortice di un dramma immane, se non avesse attinto alla fonte di un’intensa spiritualità personale.

6. Cari Giornalisti! A conclusione del nostro incontro, lasciate che io vi inviti a porre sempre l’accento sugli aspetti positivi e gratificanti della vostra professione. La complessità di situazioni e problemi, mentre incombono radicali mutamenti, fa inevitabilmente emergere le difficoltà di questo lavoro, già per se stesso impegnativo. Ma le difficoltà non possono scoraggiare. Devono piuttosto mettere maggiormente in luce il bene che può circolare nei cuori e nei vari strati della convivenza umana attraverso il vostro specifico lavoro.

Voi siete in certo modo tra i qualificati protagonisti di dialogo a raggi più diversi e siete tra coloro che plasmano la pubblica opinione: così ho affermato nel Messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, la quale avrà per tema il contributo dei mass-media alla formazione cristiana dell’opinione pubblica. Avete davanti a voi obiettivi di incalcolabile portata. Siatene fieri.

Di vero cuore vi auguro ogni migliore esito nell’assolvimento dei vostri compiti, mentre invoco sulla vostra attività e sulle vostre persone, come anche su tutti i vostri cari, le più elette grazie celesti.

Con la mia benedizione apostolica.

 

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