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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AD UN CONGRESSO DI CHIRURGIA

Giovedì, 19 febbraio 1987

 

Egregi signori,

1. È per me motivo di profonda gioia potermi incontrare con voi, illustri partecipanti al Congresso della Sezione Italiana dell’“International College of Surgeons”, convenuti a Roma per trattare dell’evoluzione della chirurgia dai tempi di Pietro Valdoni ai giorni nostri.

Con viva cordialità rivolgo a tutti il mio saluto, e in particolar modo al professor Gianfranco Fegiz, direttore della Prima Clinica Chirurgica Generale dell’Università “La Sapienza” di Roma e presidente del vostro congresso. Con lui desidero poi salutare i promotori dell’importante manifestazione scientifica, i relatori, i rispettivi familiari e tutte le persone che sono convenute a questa speciale udienza.

Voi avete voluto, con questo incontro romano, celebrare la memoria di un illustre caposcuola della vostra disciplina, che per molti di voi è stato sapiente e beneamato maestro, il professor Pietro Valdoni. È giusto ricordare con doverosa e affettuosa riconoscenza la testimonianza offerta da tale insigne studioso e ricercatore, universalmente apprezzato per il contributo recato nell’arte chirurgica e nell’impulso e nello sviluppo dato nel campo dell’anestesia e della rianimazione. Giustamente voi avete voluto prendere la sua opera come punto di riferimento per considerare gli ulteriori sviluppi maturati nella vostra disciplina fino ai giorni nostri. Voi volete ricordare altresì la profonda umanità che lo ha distinto, portandolo a dedicarsi con uguale premura alla cura delle persone note come di quelle umili e sconosciute.

2. La vostra presenza mi induce a riflettere sui problemi della vostra professione, non certo per entrare nei loro aspetti tecnici, ma perché voi stessi - e la vostra presenza qui lo attesta - siete convinti che, accanto ai problemi di ordine tecnico e pratico, sussistono istanze di ordine umano, spirituale e morale, di non minore importanza, con le quali la vostra attività deve quotidianamente misurarsi. Nell’esercizio della vostra professione infatti voi avete sempre a che fare con la persona umana, che consegna nelle vostre mani il suo corpo fidando nella vostra competenza oltre che nella vostra sollecitudine e premura. È la misteriosa e grande realtà della vita di un essere umano, con la sua sofferenza e con la sua speranza, quella che voi trattate. Voi ne siete consapevoli, e conoscete bene quale responsabilità grava su di voi in ogni momento.

Desidero manifestarvi, proprio per questo, tutta l’ammirazione che provo per una professione così difficile, delicata, eppure provvidenziale qual è la vostra, mentre mi compiaccio con voi per i progressi che la vostra arte va continuamente facendo a servizio di tutti. A questi grandi passi compiuti dalla vostra scienza, ampiamente attestati dal congresso che state celebrando, guardano con attesa e speranza tante persone insidiate dalle più diverse forme di malattia. È proprio questo servizio all’uomo che deve dare incitamento e significato a tutte le vostre ricerche e sperimentazioni: il bene dell’uomo, costantemente e assiduamente cercato, è la fondamentale motivazione che deve guidarvi nel vostro impegno. Nell’esaltante constatazione degli arditi progressi compiuti, sempre più chiara appare la finalità intrinseca della vostra missione: l’affermazione del diritto dell’uomo alla sua vita e alla sua dignità.

3. Alla luce di questa prospettiva, acquista maggiore chiarezza l’impegno morale insito nella vostra professione. Ad esso diede felice espressione il mio predecessore Paolo VI quando affermò che la vostra opera, poiché attinge ai valori dello spirito, può trasformarsi in un atto religioso (cf. Insegnamenti di Paolo VI, I [1963] 141). La crescente capacità di controllo sul corpo, sui suoi organi e, in definitiva, sulla vita degli uomini affidati alle vostre mani, vi consente di apprezzare sempre più il significato di quei fili essenziali che legano ogni creatura umana a Dio, autore della vita. È in questa luce che dovete costantemente muovervi, preoccupandovi di far sì che la vostra opera si esprima sempre entro i limiti del rispetto della vita creata da Dio, tutelando il diritto della persona a esprimersi in modo degno di un essere umano. La norma a cui deve ispirarsi ogni vostra decisione è il maggior interesse della persona, considerata nella sua globalità. C’è un’impronta particolare di Dio in ogni infermo che voi incontrate, e voi siete chiamati ad agire in modo che essa non sia mai mortificata, oscurata, oltraggiata. Il dominio sulla natura, sempre più chiaramente acquisito dalla vostra scienza, vi consente di intervenire con sicurezza ed efficacia sempre maggiori, evitando di mettere a repentaglio la vita e l’integrità di chi si affida a voi, e anzi operando perché meglio si affermi la trascendente dignità dell’uomo, creatura di Dio, figlio di Dio, amato da Dio.

Voi sarete sommamente attenti, perciò, alle norme etiche che emergono dalla considerazione religiosa dell’uomo. Sia questo il vostro impegno, questa la vostra testimonianza, soprattutto quando siete chiamati a intervenire in circostanze complesse, impreviste, rischiose. Le singole persone e l’intera comunità trarranno un vero vantaggio dalla vostra professione, se i vostri metodi di indagine e di prova vorranno sempre garantire i valori più alti, ai quali la scienza deve subordinare il suo servizio.

Desidero, a questo proposito, ribadire quanto ho già affermato, in analoga circostanza, circa il discusso argomento della sperimentazione: “La norma etica, fondata sul rispetto della dignità della persona, deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell’applicazione dei risultati in essa raggiunti” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/2 [1980] 1008). Una ricerca scientifica preoccupata più di se stessa che dell’uomo a cui dovrebbe servire, non rispetta il criterio morale fondamentale che vi deve guidare. Voi sapete bene che ogni ricerca deve essere condotta e applicata tenendo conto di tutte le cautele necessarie a garantire, per quanto possibile, la salvaguardia della vita insieme con i beni fondamentali della persona. Vi chiedo di dare in questo campo valida testimonianza di equità e di carità.

4. Consentitemi, infine, ancora un pensiero sulla qualità del rapporto tra voi e i vostri pazienti. È un aspetto importantissimo della vostra professione. È infatti ben nota l’incidenza che in un trattamento clinico ha la volontà del paziente di migliorare e di guarire, e l’esperienza insegna in quale misura tale volontà trovi il suo sostegno nel dialogo che il medico riesce a instaurare con i suoi malati. Ora voi conoscete meglio di chiunque altro il rischio a cui è esposto ogni trattamento clinico, il rischio cioè che la tecnica si sostituisca al buon rapporto di dialogo tra malato e medico, con conseguenze a volte anche pesantemente negative sull’andamento della terapia. Il rischio, cioè, che si possa addivenire a una medicina disumanizzata. Ogni cura comporta, infatti, di per sé una reciprocità e richiede rapporti autenticamente umani. Da una parte l’atto con cui il malato si affida a voi contiene in se stesso più o meno esplicitamente il riconoscimento della vostra competenza e perizia, l’assenso alla vostra opera, la fiducia nella vostra discrezione e responsabilità. Dall’altra, voi stessi avete bisogno di capire il malato in tutto il suo vissuto per offrirgli un’assistenza personalizzata. Occorre, dunque, che s’instauri un legame tra la sfera psico-affettiva del sofferente e il vostro mondo interiore di uomini, prima ancora che di professionisti. Il rapporto malato-medico deve, perciò, diventare sempre di più “un autentico incontro tra due uomini liberi . . . tra una "fiducia" e una "coscienza"” (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/2 [1980] 1010). I traguardi da raggiungere in questo campo vi potranno essere suggeriti proprio dalla giustizia e carità cristiane, ispirate al modello di Cristo, medico dei corpi oltre che delle anime. È la carità che conduce all’amicizia, alla condivisione, alla vicinanza interiore con le ansie, i timori, le speranze del sofferente. Essa, la carità, renderà sempre più sensibile il vostro cuore ai valori personali del degente. Cercate, a tale proposito, di togliere, per quanto dipende da voi, qualsiasi ostacolo a una premurosa umanizzazione dei rapporti tra pazienti e curanti, sviluppando, attorno a voi, quel vivo senso dell’uomo che nasce dal modello della carità evangelica. Vi invito cordialmente a nobilitare sempre più, anzi, a sublimare il vostro spirito di umanità, così da dare ai vostri incontri con ogni sofferente il valore grande di un atto che è anche sacro. È Cristo che vi dice: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

5. Con queste riflessioni, confidando nelle nobili intenzioni che vi hanno condotto a questo incontro e soprattutto dando atto alle valide motivazioni umanitarie che quotidianamente ispirano il vostro lavoro, porgo a tutti voi il mio sincero augurio per un valido progresso delle vostre ricerche, a vantaggio di tutta l’umanità e di ogni singolo uomo.

Cristo, che soffre nella carne di ogni paziente, coroni i vostri sforzi e le vostre ricerche con il successo che desiderate e meritate. Con queste intenzioni di cuore imparto a tutti voi la mia benedizione apostolica.

 

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