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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI MEMBRI DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

Venerdì, 7 aprile 1989

 

Signor Cardinale, cari amici.

Ringrazio di cuore il Cardinale Ratzinger per le cortesi parole indirizzatemi nel presentarmi la commissione biblica, attualmente riunita a Roma per studiare un nuovo problema. Esprimo anche la mia gratitudine a monsignor Henri Cazelles, sacerdote di san Sulpizio, diligente segretario della commissione, e a tutti i membri qui convenuti da tutti i punti del mondo, per la loro disponibilità a mettere le loro differenti competenze al servizio di una ricerca comune.

Il tema di questa ricerca è di importanza vitale per tutta la Chiesa, poiché si tratta dell’ermeneutica biblica nei confronti dei metodi storici e critici. Il Concilio ci ha ricordato che tutta la predicazione della Chiesa deve essere “nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura” (Dei Verbum, 21). La prima questione che si pone è quindi quella che gli Atti degli Apostoli descrivono nell’episodio dell’etiope, a cui Filippo domandò: “Capisci quello che stai leggendo?” (At 8, 30). L’etiope aveva bisogno di una interpretazione. Non si può fare una interpretazione senza un metodo.

Il vostro presidente ha ricordato la molteplicità dei metodi proposti ai nostri giorni agli esegeti. Il fatto non è nuovo. Fin dall’epoca dei padri, diverse scuole di esegesi si distinguevano proprio per i loro metodi interpretativi, dando così alle Scritture delle illuminazioni complementari. Se è vero che il gran numero dei metodi può dare talvolta l’impressione di una certa confusione, ha tuttavia il vantaggio di far apparire meglio la meravigliosa ricchezza della Parola di Dio.

È vero che, più di una volta, certi metodi interpretativi sono sembrati un pericolo per la fede, perché sono stati utilizzati da interpreti non-credenti, con l’intenzione di sottoporre le affermazioni scritturali ad una critica distruttiva. In simili casi, è necessario stabilire una netta distinzione tra il metodo in sé, che, se corrisponde alle esigenze autentiche dello spirito umano, contribuirà all’arricchimento della conoscenza, e, d’altra parte, i presupposti incontestabili - di carattere razionalista, idealista o materialista - che possono pesare sull’interpretazione e invalidarla. L’esegeta illuminato dalla fede non può, evidentemente, adottare simili presupposti, ma trarrà ugualmente vantaggio dall’uso del metodo. Fin dall’antico testamento, il popolo di Dio è stato incoraggiato ad “arricchirsi con le spoglie degli Egiziani”!

Ogni metodo ha i suoi limiti. Riconoscerli è indispensabile. Questo fa parte dello spirito scientifico, che proprio per questo si distingue dallo scientismo. Se ha davvero spirito scientifico, l’esegeta credente sarà consapevole del valore relativo dei risultati delle sue ricerche e la sua modestia, lungi dal nuocere alla diffusione della sua opera, ne garantirà l’autenticità.

Nella Chiesa tutti i metodi devono essere, direttamente o indirettamente, al servizio dell’evangelizzazione. In questi ultimi tempi, molti cristiani si sono lamentati del fatto che l’esegesi era diventata un’arte raffinata, senza rapporto con la vita del Popolo di Dio. Questa critica può certo essere contestata; in molti casi non è giustificata. Tuttavia c’è motivo di prestare attenzione. La fedeltà stessa al suo compito di interpretazione esige da parte dell’esegeta di non accontentarsi di studiare gli aspetti secondari dei testi biblici, ma di evidenziarne il messaggio principale, che è un messaggio religioso, un richiamo alla conversione e una buona Novella di salvezza, in grado di trasformare ciascuna persona e tutta la società, introducendola nella comunione divina.

La sera di Pasqua, manifestandosi ai suoi discepoli, Gesù “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24, 45). Vi auguro la stessa grazia, affinché il vostro lavoro sia di grande fecondità per la Chiesa e per il mondo. Con questa intenzione vi imparto di cuore la mia benedizione apostolica.

 

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