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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO
CONSIGLIO PER IL DIALOGO CON I NON CREDENTI

Sabato, 16 marzo 1991

 

Signori Cardinali,
Cari fratelli nell’Episcopato,
Cari amici,

1. Vi accolgo con gioia questa mattina e vi porgo di tutto cuore il benvenuto. Siete riuniti in assemblea plenaria, quali membri e consulenti del Pontificio Consiglio per il Dialogo con i Non Credenti, sotto la presidenza del Cardinale Paul Poupard, per riflettere su un tema dalla permanente attualità, dalle profonde incidenze pastorali: l’aspirazione dell’uomo alla felicità, come punto di ancoraggio per la fede. Questo approccio antropologico alla fede e, all’opposto, a coloro che non credono, è uno dei punti possibili per meglio rispondere alle insoddisfazioni e alle angosce, alle paure e alle minacce che pesano sull’uomo d’oggi e di cui egli cerca di liberarsi, per spalancargli la porta della felicità nella gioiosa luce di Cristo risorto “il Vivente, che ha potere sopra la morte e sopra gli inferi” (cf. Ap 1, 18). Colui che solo, offre una risposta definitiva all’angoscia e alla disperazione degli uomini.

Vi ringrazio per aver proposto questo tema della felicità alla riflessione della Chiesa, come un sostegno sul cammino della fede.

2. Come si presenta oggi la ricerca della felicità? Quali caratteristiche riveste?

Come risulta dai risultati dell’inchiesta pubblicata, al termine di tre anni, nella vostra rivista “Ateismo e fede”, l’aspirazione alla felicità s’identifica, presso le tradizionali popolazioni del Terzo Mondo, con un’armoniosa integrazione nel gruppo familiare ed etnico ed un elementare benessere materiale. Essa è caratterizzata, al contrario, dall’individualismo nelle società opulente, segnate dalla secolarizzazione e dall’indifferenza religiosa. La vostra attenzione si è soprattutto soffermata su queste società, poiché esse sono quelle maggiormente colpite dall’ateismo; la libertà è in esse concepita sovente come una facoltà di autodeterminazione assoluta, affrancata da ogni legge. Per molti, la felicità non si raccorda più al compimento del dovere morale, né alla ricerca di un rapporto personale con Dio. In questo senso, possiamo parlare di rottura tra felicità e moralità. Cercare la felicità nella virtù diviene un ideale estraneo, e persino strano, per molti dei nostri contemporanei. Primeggia l’interesse per il corpo, la sua salute, la sua bellezza e la sua giovinezza. È l’immagine di una felicità racchiusa in un circolo vizioso del desiderio e della sua soddisfazione. È vero che la compassione, la benevolenza verso gli altri ed una reale generosità, anche presso coloro che si sono allontanati dalla fede, costituiscono anch’esse delle caratteristiche di queste società.

Questa cultura è spesso definita come narcisista. Il mito ideato dall’antichità greca dimostra come gli antichi avessero già coscienza della sterilità di un amore chiuso su se stesso. Amare solo se stessi vuol dire distruggersi e perire. “Chi vorrà salvare la propria vita, dirà Gesù, la perderà” (Mc 8, 35).

Lo sguardo verso gli altri, l’oblio di sé per sollecitudine verso l’altro e la sua felicità, non sono forse le più espressive immagini del mistero divino? Il Dio vivente e vero, di cui Gesù ci ha rivelato il volto, non è un Dio solitario. Tra le Persone divine, tutto è dono, condivisione, comunicazione, in un eterno respiro d’amore. Tutta la felicità di Dio e la sua gioia sono la felicità e la gioia della mutua donazione. Per l’uomo, creato a sua somiglianza, non vi è vera felicità all’infuori della donazione di sé. “Chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8, 35), dice Gesù.

3. Un’altra considerazione s’impone. Al contrario degli antichi che possedevano un così forte senso del tragico dell’esistenza, della solitudine dell’uomo nel mondo, della sua insufficienza dinanzi all’ideale del bello e del bene, del carattere effimero di tutte le cose e, infine, della fatalità della morte, la società della produzione e dei consumi rifiuta d’integrare nella sua idea della felicità la presenza e l’esperienza del male e della morte. Essa si costruisce perciò una immagine della felicità fragile, artificiale e, in definitiva, falsa. Ogni sistema che non affronti in profondità l’oscuro enigma della vita ha poche cose da offrire agli uomini e costoro si stancano, presto o tardi. La storia recente lo dimostra con evidenza.

4. La concezione cristiana della vita – e della felicità – ha la sua sorgente in Gesù Cristo, Dio fattosi uomo, nella sua vita terrestre in mezzo a noi, nella sua morte accettata liberamente e nella sua vittoria sulla morte il mattino di Pasqua. “In realtà, afferma il Concilio Vaticano II, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes, 22). Il mistero della felicità umana trova la sua chiave in Gesù Cristo, archetipo di ogni esistenza donata. Gesù Cristo abolisce i dolorosi antagonismi tra cielo e terra, presente e futuro, tra l’uomo e Dio. Quest’epoca, oppressa ancora dalle conseguenze del peccato ma ciononostante riscattato ormai da Cristo, può essere vissuta come un’epoca di felicità, nella speranza del suo compimento ultimo. Questo mondo, in cui il male e la morte regnano ancora, può essere amato nella gioia, perché il Regno di Dio, che raggiungerà la sua perfezione quando il Signore ritornerà, è già presente su questa terra (cf. Gaudium et spes, 39, § 3), costituendo in questo modo l’abbozzo, la figura e la profezia della terra nuova e dei cieli nuovi. La realtà corporale può essere assunta con tutto il suo peso di miserie e di sofferenze, la morte medesima può essere accettata senza disperazione, grazie alla promessa della resurrezione. Tutto viene salvato, anche la banalità quotidiana, anche la prova più dolorosa. Al peccatore è sempre offerto il perdono delle sue colpe. Questo è il senso cristiano della felicità, la promessa delle Beatitudini, di cui noi desideriamo diffondere la luce, “come . . . lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1, 19).

5. Quest’anno, il bicentenario della morte di Mozart richiama la nostra attenzione sul messaggio di gioia portato dalla sua opera; vi si scorge un sentimento di felicità, come un’esperienza simultanea di morte e resurrezione. Molti percepiscono in essa, soprattutto nelle composizioni religiose, un vero canto di gioia del creato redento e riconciliato con Dio, un’eco della grazia, sorgente inestinguibile. La condivisione della fede ha bisogno di divenire un’altra volta una condivisione della gioia. Il dialogo, che talvolta si prosciuga nello scambio di idee, può ritrovare un’ispirazione privilegiata nella meraviglia dinanzi alla beltà artistica, riflesso dell’eterna e indicibile beltà di Dio.

6. Cari amici, quest’assemblea plenaria sull’aspirazione alla felicità è una soglia attraversata nella vostra breve, ma già significativa, storia: a giusto titolo vi orientate verso la riflessione antropologica. Già tre anni fa lo constatavate: le ideologie, le visioni atee del mondo, costruite nel XIX secolo, non hanno ormai altro che un’influenza sminuita e i classici dell’ateismo non occupano più il centro della scena. L’ateismo militante, con i suoi guasti, ha come generato una nuova religiosità pagana: è la tentazione dell’autodivinizzazione, tanto antica quanto la Genesi, è l’arbitrario rigetto della legge morale, è infine la tragica esperienza del male. Le società industrializzate, dalla tecnologia avanzata, dalle mentalità condizionate dai mezzi di comunicazione di massa, sono preda della svalutazione dei valori e della perdita del senso morale. È questo un nuovo terreno di dialogo con i non credenti, compito più che mai necessario.

7. Un’era di dialogo sgombrato dal peso delle ideologie si apre all’alba del nuovo millennio. Vi sono grato perché sensibilizzate la Chiesa a questo aspetto della sua missione, con riunioni con i vostri collaboratori nelle diverse parti del mondo. Continuate quest’opera con pazienza e discernimento, invocando l’assistenza dello Spirito Santo e la protezione della Vergine Maria, “causa della nostra gioia”.

In questa missione difficile e necessaria, vi accompagnano la mia benedizione e la mia preghiera.

 

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