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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI COMPONENTI DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA
PER L'INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO

Venerdì, 28 gennaio 1994

 

1. Le sono vivamente grato, Monsignor Decano, per i nobili sentimenti espressi a nome di tutti i presenti. Saluto cordialmente, insieme con Lei, il Collegio dei Prelati Uditori, gli Officiali e quanti prestano la loro opera nel Tribunale della Rota Romana, come pure i componenti dello Studio Rotale e gli Avvocati Rotali. A tutti vadano i miei più fervidi voti di ogni bene nel Signore!

Un particolare augurio di sereno e proficuo lavoro desidero, poi, rivolgere personalmente a Lei, Monsignor Decano, che ha da poco assunto l'onore e l'onere della direzione del Tribunale, succedendo a Mons. Ernesto Fiore, che ricordo con affetto. La Madre del Buon Consiglio, Sede della Sapienza, L'assista ogni giorno nell'adempimento del suo importante servizio ecclesiale.

2. Ho ascoltato con vivo interesse le profonde riflessioni da Lei svolte sulle radici umane ed evangeliche che alimentano l'attività del Tribunale e ne sorreggono l'impegno a servizio della giustizia. Vari sarebbero i temi meritevoli di essere ripresi e sviluppati. Ma lo specifico riferimento che Ella ha fatto alla recente Enciclica Veritatis splendor mi induce a trattenermi stamane con voi sul suggestivo rapporto che intercorre tra lo splendore della verità e quello della giustizia. Come partecipazione alla verità, anche la giustizia possiede un suo splendore, capace di evocare nel soggetto una risposta libera, non puramente esterna, ma nascente dall'intimo della coscienza.

Già il mio grande Predecessore Pio XII, rivolgendosi alla Rota, autorevolmente ammoniva: «Il mondo ha bisogno della verità che è giustizia, e di quella giustizia che è verità». [1] Giustizia di Dio e legge di Dio sono il riflesso della vita divina. Ma anche la giustizia umana deve sforzarsi di riflettere la verità, partecipando del suo splendore. «Iustitia enim quandoque veritas vocatur», ricorda san Tommaso, [2]  vedendo il motivo di ciò nell'esigenza che la giustizia pone di essere attuata secondo la retta ragione, cioè secondo verità. È legittimo, pertanto, parlare dello «splendor iustitiae» ed anche dello «splendor legis»: compito di ogni ordinamento giuridico, infatti, è il servizio della verità, «unico fondamento saldo su cui può reggersi la vita personale, coniugale e sociale». [3] È doveroso, quindi, che le leggi umane aspirino a rispecchiare in sé lo splendore della verità. Ovviamente, ciò vale anche della applicazione concreta di esse, che è pure affidata ad operatori umani.

L'amore per la verità non può non tradursi in amore per la giustizia e nel conseguente impegno di stabilire la verità nelle relazioni all'interno della società umana; né può mancare, da parte dei sudditi, l'amore per la legge e per il sistema giudiziario, che rappresentano lo sforzo umano per offrire norme concrete nella risoluzione dei casi pratici.

3. È necessario, per questo, che quanti, nella Chiesa, amministrano la giustizia giungano, grazie all'assiduo colloquio con Dio nella preghiera, ad intravederne la bellezza. Ciò li disporrà, tra l'altro, ad apprezzare la ricchezza di verità del nuovo Codice di Diritto Canonico, riconoscendone la fonte ispiratrice nel Concilio Vaticano II, le cui direttive altro scopo non hanno se non quello di promuovere la vitale comunione di ciascun fedele con Cristo e con i fratelli.

La legge ecclesiastica si preoccupa di proteggere i diritti di ciascuno nel contesto dei doveri di tutti verso il bene comune. Osserva, al riguardo, il Catechismo della Chiesa Cattolica: «. . . la giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del bene comune». [4]

Quando i Pastori e i Ministri della giustizia incoraggiano i fedeli, non soltanto ad esercitare i diritti ecclesiali, ma a prendere anche coscienza dei propri doveri per adempierli fedelmente, proprio a questo vogliamo indurli: a fare esperienza personale ed immediata dello «splendor legis». Infatti il fedele che «riconosce, sotto l'impulso dello Spirito, la necessità di una profonda conversione ecclesiologica, trasformerà l'affermazione e l'esercizio dei suoi diritti in assunzione dei doveri di unità e di solidarietà per l'attuazione dei valori superiori del bene comune». [5]

Per contro, la strumentalizzazione della giustizia al servizio di interessi individuali o di forme pastorali, sincere forse, ma non basate sulla verità, avrà come conseguenza il crearsi di situazioni sociali ed ecclesiali di sfiducia e di sospetto, in cui i fedeli saranno esposti alla tentazione di vedere soltanto una lotta di interessi rivali, e non uno sforzo comune per vivere secondo diritto e giustizia.

4. Tutta l'attività del Giudice ecclesiastico, come ebbe ad esprimersi il mio venerato predecessore Giovanni XXIII, consiste nell'esercizio del «ministerium veritatis». [6] In questa prospettiva è facile capire come il Giudice non possa fare a meno di invocare il «lumen Domini» per poter distinguere la verità in ogni singolo caso. A loro volta, però, le parti interessate non dovrebbero mancare di chiedere per sé nella preghiera la disposizione di accettazione radicale della decisione definitiva, pur dopo aver esaurito ogni mezzo legittimo per contestare ciò che in coscienza ritengono non corrispondente alla verità o alla giustizia del caso.

Se gli amministratori della legge si sforzeranno di osservare un atteggiamento di piena disponibilità alle esigenze della verità, nel rigoroso rispetto delle norme procedurali, i fedeli potranno conservare la certezza che la società ecclesiale sviluppa la sua vita sotto il regime della legge; che i diritti ecclesiali sono protetti dalla legge; che la legge, in ultima analisi, è occasione di una risposta amorosa alla volontà di Dio.

5. La verità tuttavia non è sempre facile: la sua affermazione risulta a volte assai esigente. Ciò non toglie che essa debba essere sempre rispettata nella comunicazione e nelle relazioni fra gli uomini. Altrettanto vale per la giustizia e per la legge: anch'esse non sempre si presentano facili. Il compito del legislatore - universale o locale - non è agevole. Dovendo la legge riguardare il bene comune - «omnis lex ad bonum commune ordinatur» [7]  - è ben comprensibile che il legislatore chieda, se necessario, sacrifici anche gravosi ai singoli. Questi, per parte loro, vi corrisponderanno con l'adesione libera e generosa di chi sa riconoscere, accanto ai propri, anche i diritti degli altri. Ne seguirà una risposta forte, sostenuta da spirito di sincera apertura alle esigenze del bene comune, nella consapevolezza dei vantaggi che da esso derivano, in definitiva, al singolo stesso.

È a voi ben nota la tentazione di ridurre, in nome di una concezione non retta della compassione e della misericordia, le esigenze pesanti poste dall'osservanza della legge. Al riguardo occorre ribadire che, se si tratta di una violazione che tocca soltanto la persona, è sufficiente rifarsi all'ingiunzione: «Va' e d'ora in poi non peccare più». [8] Ma se entrano in gioco i diritti altrui, la misericordia non può essere data o accolta senza far fronte agli obblighi che corrispondono a questi diritti.

Doverosa è pure la messa in guardia nei confronti della tentazione di strumentalizzare le prove e le norme processuali, per raggiungere un fine «pratico» che forse viene considerato «pastorale», con detrimento però della verità e della giustizia. Rivolgendomi a voi alcuni anni addietro, facevo riferimento ad una «distorsione» nella visione della pastoralità del diritto ecclesiale: essa «consiste nell'attribuire portata ed intenti pastorali unicamente a quegli aspetti di moderazione e di umanità che sono immediatamente collegabili con l'aequitas canonica; ritenere cioè che solo le eccezioni alle leggi, l'eventuale non ricorso ai processi ed alle sanzioni canoniche, lo snellimento delle formalità giuridiche abbiano vera rilevanza pastorale». Ma ammonivo che, in tal modo, facilmente si dimentica che «anche la giustizia e lo stretto diritto - e di conseguenza le norme generali, i processi, le sanzioni e le altre manifestazioni tipiche della giuridicità, qualora si rendano necessarie - sono richiesti nella Chiesa per il bene delle anime e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali». [9] È pur vero che non sempre è facile risolvere il caso pratico secondo giustizia. Ma la carità o la misericordia - ricordavo nella stessa occasione - «non possono prescindere dalle esigenze della verità. Un matrimonio valido, anche se segnato da gravi difficoltà, non potrebbe essere considerato invalido, se non facendo violenza alla verità e minando, in tal modo, l'unico fondamento saldo su cui può reggersi la vita pastorale, coniugale e sociale». [10] Sono principi, questi, che sento il dovere di ribadire con particolare fermezza nell'Anno della Famiglia, mentre ci s'avvede con sempre maggior chiarezza dei rischi a cui una malintesa «comprensione» espone l'istituto familiare.

6. Un giusto atteggiamento verso la legge, infine, tiene conto anche della sua funzione di strumento a servizio del buon funzionamento della società umana e, per quella ecclesiale, dell'affermazione in essa della «communio».

Per alimentare l'autentica «communio», quale il Concilio Vaticano II la descrive, è assolutamente necessario fomentare un retto senso della giustizia e delle sue ragionevoli esigenze.

Proprio per questo, preoccupazione del legislatore e degli amministratori della legge sarà, rispettivamente, di creare ed applicare norme basate sulla verità di ciò che è doveroso nelle relazioni sociali e personali. L'autorità legittima dovrà poi impegnarsi e promuovere la retta formazione della coscienza personale, [11]  perché, se ben formata, la coscienza aderisce naturalmente alla verità ed avverte in se stessa un principio di obbedienza che la spinge ad adeguarsi alla direttiva della legge. [12]

7. In tal modo, sia nell'ambito individuale come in quello sociale e specificamente ecclesiale, verità e giustizia potranno sprigionare il loro splendore: di esso ha oggi bisogno come non mai l'umanità intera per trovare la retta via e la sua meta finale in Dio.

Quale importanza ha dunque il vostro lavoro, illustri Prelati Uditori e cari componenti della Rota Romana. Confido che le considerazioni ora svolte vi siano di stimolo e di sostegno nello svolgimento della vostra attività, per la quale vi esprimo il mio augurio più cordiale ed insieme l'assicurazione di uno speciale ricordo nella preghiera.

A conferma di questi sentimenti volentieri vi imparto la mia Benedizione, con la quale intendo abbracciare anche tutti coloro che nella Chiesa attendono al delicato compito dell'amministrazione della giustizia.


[1] AAS 34 (1942), p. 342, n. 5.

[2] San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 58, a. 4, ad 1.

[3] Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990: AAS 82 (1990), p. 875, n. 5.

[4]  N. 1807.

[5] Giovanni Paolo II, Allocuzione alla S. Romana Rota, 17 febbraio 1979: AAS 71 (1979), pp. 425s.

[6]  Allocuzione alla S. Romana Rota, 13 decembris 1961: AAS 53 (1961), p. 819, n. 3.

[7] San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 90, a. 2.

[8] Gv 8, 11.

[9] Giovanni Paolo II, Allocuzione del 18 gennaio 1990: AAS 82 (1990), p. 873, n. 3.

[10] Ibid., p. 875, n. 5.

[11] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor, 6 agosto 1993: AAS 85 (1993), pp. 1193, n. 75.

[12]  Cf. ibid., p. 1181, n. 60; Id., Lett. enc. Dominum et Vivificantem, 18 maggio 1986: AAS 78 (1986), pp. 859s, n. 43.

 

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