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Commento del Vice Direttore

L'andare in profondità di Benedetto XVI


L'uomo a una dimensione, senza almeno una finestra aperta alla trascendenza, non convince Benedetto XVI. Per natura sua l'uomo ha una capacità di dialogare con Dio e con un riferimento a Dio, pur nel rispetto della società pluralista, le cose potrebbero andare meglio. E questa convinzione il papa va proponendo alla riflessione comune.
Dio costituisce il centro della azione pastorale e culturale di Benedetto XVI. Egli intende parlare anzitutto e soprattutto di Dio come una possibile chiave di lettura del reale. Il dialogo di fede e ragione si muove nel rispetto di due grandi interlocutori che ne sono attori: Dio stesso e l'uomo, prima ancora che laici e credenti.
L'umanesimo di Benedetto XVI è pari alla sua passione per Dio. Il Dio biblico, entrato nella storia con Gesù di Nazaret, è un Dio che salva e un Dio che dialoga.
Se la ragione è chiamata a misurarsi con questo annuncio, la fede è chiamata a conformarsi con esso, conformarsi all'amore. Perciò il binomio di fede e ragione tanto caro al teologo Ratzinger, quando è rivolto ai fedeli si allarga a un terzo elemento: la preghiera. Il nome di Benedetto è stato scelto dal papa per richiamare sul piano storico gli uomini al primato della pace e sul piano della fede a ridare a Dio il primato sull'azione: ora et labora.
Andare in profondità, diventare discepoli del vangelo per imparare a pregare, è il primo comandamento del pontificato. Il fine teologo che attualizza la riflessione razionale sulla fede, esprime netta la sua convinzione: i nodi storici che rendono difficile il dialogo tra credenti e non credenti, le angustie che sembrano inaridire in occidente credibilità e dinamismo delle Chiese e confessioni cristiane, si scioglieranno non tanto trasformando i cristiani in attivisti, quanto in discepoli della preghiera. Impegno politico, competenze professionali, capacità progettuale per liberare solidarietà e libertà, diritti e giustizia non vengono accantonati, ma si richiedono ai cristiani come a ogni altro abitante nella città dell'uomo. Di loro specifico i cristiani mettono la preghiera al Dio vivente, al Dio di Gesù Cristo. E questa specialmente devono praticare.
Pregare, secondo papa Ratzinger, non vuol dire, tuttavia, ripetere formule a un Dio tappabuchi. È invece un'esperienza di vita che trasforma, migliora la capacità di amare, lascia intravedere il cammino verso la felicità interiore. È un principio attivo per uomini nuovi.
Benedetto XVI lo ha detto in circostanze importanti, come il discorso ai cattolici italiani nel convegno di Verona, lo ha ripetuto parlando di recente di emergenze ambientali, economiche, politiche e sociali. Accanto a sviluppo sostenibile, a economia sociale che modera il profitto e riscatta il lavoro, lotta alla camorra, resistenza alla violenza con l'impegno civile e l'azione non violenta, Benedetto XVI colloca immancabilmente la preghiera. Non come aggiunta che ci si aspetta da un prete e tanto più da un papa. La consegna, prima tra tutte le consegne ai cattolici italiani e non solo, non è stata alcuna agitazione attivistica, ma la preghiera. "Prima di ogni nostro programma, infatti, deve esserci l'adorazione, che ci rende davvero liberi e dà i criteri del nostro agire", ha affermato a Verona.
"La forza che in silenzio e senza clamori cambia il mondo e lo trasforma nel Regno di Dio - ha detto alla città di Napoli - è la fede, ed espressione della fede è la preghiera. Quando la fede si colma d'amore per Dio riconosciuto come padre buono e giusto, la preghiera si fa perseverante, insistente, diventa un gemito dello spirito, un grido dell'anima che penetra il cuore di Dio. In tal modo la preghiera diviene la più grande forza di trasformazione del mondo. Di fronte a realtà sociali difficili e complesse, come sicuramente è anche la vostra, occorre rafforzare la speranza, che si fonda sulla fede e si esprime in una preghiera instancabile". La preghiera ci riconsegna alla vita quotidiana come uomini e donne convertiti, liberi da interessi, pronti a operare per il bene dei deboli e dei più poveri.
Raccontare Benedetto XVI uscendo dalla leggenda, è raccontare un percorso culturale che punta all'essenziale. Ci si imbatte così nella preghiera che richiede di cominciare a esaminare se stessi anziché puntare il dito sulla pagliuzza nell'occhio del prossimo. È un modo per vedere ogni grande questione del vivere e del morire anziché quale occasione di contesa, come momento per ritrovarsi tra diversi per l'affermazione del bene comune. Che significa per ciascuno lasciare fuori della porta i rispettivi ritardi e pregiudizi.
Il Dio che Benedetto XVI invita a pregare è un Dio liberatore, che non è presente a sprazzi, ma si è inserito nella nostra esistenza, garantendoci un "risveglio alla vita" al di là della morte. Questa infatti, non riesce a spezzare il dialogo tra Dio e l'uomo che, una volta iniziato, ci libera dall'angustia del limite mortale. Il papa non è preoccupato di una fantomatica egemonia, quanto piuttosto della testimonianza cristiana che ora fatica a essere percepita. Non si testimonia niente di Dio se prima non si è vissuto almeno qualche tempo con lui. Pregare è fare esperienza di Dio. È l'esperienza che porta a una testimonianza non a parole. Benedetto XVI lo ripete dal momento della sua elezione narrando alle udienze generali la storia dei grandi testimoni della fede a cominciare dagli apostoli. Il teorema ratzingeriano a questo punto appare con tutta evidenza e onestà intellettuale. Con le conseguenze.

c.d.c

 

(© L'Osservato Romano 28/10/2007)