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Sulla legge naturale

Il paradosso dei diritti umani


Francesco D'Agostino

Negli anni Sessanta, il dibattito sul diritto naturale era acceso e vivace. Si era tutti segnati da esperienze storiche fondamentali: in negativo dalle disumane e cruente esperienze dei grandi totalitarismi (che per alcuni intellettuali si limitavano solo a quelle nazifasciste), in positivo dall'approvazione della grande Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, non a torto ritenuta un vero e proprio evento storico (tranne che da Benedetto Croce, che con una insensibilità storica straordinaria, pari alla sua straordinaria intelligenza filosofica, non riuscì a percepirne che il carattere di estremo rigurgito dell'illuminismo settecentesco). Non che mancassero, negli anni Sessanta, gli anti-giusnaturalisti; ma anche i più illustri tra loro - per esempio, Norberto Bobbio - lo erano secundum quid. Bobbio, infatti, come giurista si professava positivista quanto al metodo, ma giusnaturalista quanto all' "ideologia": egli cioè non riteneva che si potesse ridurre la giustizia alla volontà arbitraria del legislatore, ma era un accanito difensore dei diritti umani, la cui matrice giusnaturalista di certo non gli sfuggiva.
Il cuore del dibattito era quindi se si potesse dare o no ai diritti dell'uomo un fondamento obiettivo: al no dei giuspositivisti (per alcuni un no sinceramente accorato) si contrapponeva il sì dei giusnaturalisti (un sì, a sua volta, consapevolmente problematico). Citatissima, all'epoca, l'affermazione attribuita a Jacques Maritain (che della Dichiarazione dell'Onu era stato uno dei più significativi promotori): siamo tutti d'accordo sui diritti dell'uomo, purché non ci si chieda il perché. Era un'affermazione di carattere pragmatico, non filosofico, quasi un'arguzia; con essa Maritain voleva spiegare come si fosse arrivati in un consesso internazionale come l'Onu a risultati condivisi capaci nello stesso tempo di difendere obiettivamente la dignità dell'uomo e di non ferire la sensibilità storico-culturale di nessuno dei popoli rappresentati al Palazzo di Vetro.
Il dibattito sui diritti umani non è mai venuto meno nei decenni successivi, anzi si è andato allargando e articolando progressivamente. Quella che è invece andata affievolendosi è stata la riflessione filosofica sul giusnaturalismo. Le ragioni sono molteplici. Da una parte il diffondersi - tipico dei decenni seguenti all'ultima guerra mondiale - di antropologie deboli o addirittura dello stesso disgregarsi dell'antropologia. Dall'altra la pigrizia di molti giuristi, per i quali tale riflessione si presentava di fatto come superflua, a causa della progressiva costituzionalizzazione, e quindi positivizzazione, dei diritti umani. Né va sottovalutata la portata del processo di globalizzazione, che piuttosto che far fiorire nuove sensibilità in merito al carattere universale della dignità dell'uomo, ha spesso accentuato rivendicazionismi etnici e le conseguenti pretese all'incomunicabilità delle diverse culture.
Siamo così arrivati a un obiettivo paradosso: il paradigma dei diritti umani è irrinunciabile, ma la difficoltà, anzi il rifiuto a dargli un adeguato fondamento lo sta erodendo e portando verso una probabile implosione. È un paradigma irrinunciabile, perché è l'unico che garantisce una comunicazione pacifica e pacificante non solo tra tutti i popoli del pianeta, ma anche tra tutti i singoli esseri umani, a partire dal presupposto della loro pari e costitutiva dignità. Ma è nello stesso tempo un paradigma che ha bisogno di un fondamento, per apparire credibile e capace di resistere alle nuove pretese manipolatorie di chi, per sfruttare l'immenso prestigio accumulato negli anni dal paradigma dei diritti umani, pretende di ricondurre alle sue categorie, cioè di camuffare come diritti - con contorsionismi teoretici degni di miglior causa - le pretese radicalmente egoistiche e soggettive, tipiche delle tensioni individualistiche proprie del nostro tempo e purtroppo rafforzate dalle dinamiche di un capitalismo incapace di percepire al di là dell'orizzonte degli interessi individuali quello di un bene comune.
In quanto crisi culturale, quella del diritto naturale, come fondamento dei diritti umani, va fronteggiata da filosofi e giuristi: compito arduo, ma possibile. Altrettanto ardua, ma pur sempre possibile, un'altra via per fronteggiare la crisi di cui siamo tutti spettatori, una via aperta non solo agli intellettuali, ma ai politici, agli operatori sociali e culturali, ai movimenti, al volontariato (internazionale e nazionale): è la via dell'intensificazione della comunicazione. Quando si comunica, si assume come presupposto implicito la capacità di chi è oggetto della comunicazione di recepirla: si rende pertanto sempre un omaggio (magari inconsapevole) alla dignità dell'interlocutore. Non alludo, dicendo questo, alla necessità di promuovere ulteriormente le fin troppo numerose e spesso irrilevanti informazioni che circolano vorticosamente nel nostro mondo globalizzato: non si tratta di informare gli uni dei costumi, dei modi di vita, delle visioni del mondo, delle ideologie degli altri, ma di porre l'io e il tu, gli uni e gli altri, in costante raffronto, mostrando in tal modo con i fatti l'omogeneità strutturale e le comuni esigenze di senso che traspaiono da tutte le pratiche umane. Nessuna ingenuità in quello che stiamo dicendo: sappiamo bene che non tutte le pratiche umane - e le nostre in prima battuta! - si sono mostrate adeguate nella storia a realizzare nel modo migliore il bene umano. Ma sappiamo anche che se esiste un impegno dotato di senso e per il quale vale la pena battersi fino in fondo è proprio quello di far abbandonare, ai singoli così come ai popoli, le loro chiusure egocentriche: questa può essere la nuova frontiera di lotta per l'affermazione dei diritti umani.

 

(© L'Osservatore Romano 04/11/2007)