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Una riflessione sulla legge naturale

La fragilità dei diritti umani


di Lucetta Scaraffia

La situazione politica mondiale vive in una sorta di paradosso, già segnalato nel 1989 da Giovanni Paolo II: la dichiarazione dei diritti umani del 1948, a cui tutti dicono di fare riferimento, "non presenta i fondamenti antropologici ed etici dei diritti umani che esso proclama". Le speranze che una politica fondata sui diritti umani offre per la dignità umana, la democrazia, la giustizia, si fondano quindi su una base fragilissima. Una esplorazione di questa situazione e una critica costruttiva di questa contraddizione interna all'etica mondiale vigente viene avanzata nel libro lucido e chiaro di Janne Haaland Matláry, docente di diritto internazionale presso l'università di Oslo ma anche protagonista della vita politica del suo paese e del rapporto diplomatico fra Santa Sede e organizzazioni internazionali (Diritti umani abbandonati? La minaccia di una dittatura del relativismo, Lugano, Eupress, 2007, pagine 231, ; 21,00). Il libro, edito dalla Facoltà Teologica di Lugano, è arricchito dalla prefazione di un'altra intellettuale cattolica esperta di problemi internazionali, Mary Ann Glendon, che critica l'idea corrente di ragione umana, decisamente riduttiva se fatta coincidere "con il perseguimento dei propri interessi materiali", invece che come capacità di un essere umano "di riflettere sull'etica". Due intellettuali cattoliche di importanza mondiale, quindi, che affrontano i temi di fondo della società contemporanea con coraggio e, insieme, speranza, offrendo una prova ancora dell'importanza che oggi le donne, anche come intellettuali, ricoprono all'interno della Chiesa cattolica.
In forza del suo status particolare la Santa Sede decide spesso di assumere nelle organizzazioni internazionali il ruolo di osservatore, come nelle Nazioni Unite e nel Consiglio d'Europa. Il suo contributo consiste sovente nella redazione di testi sui diritti umani, un terreno in cui dispone delle migliori competenze. La Matláry ha partecipato a molte di queste riunioni come rappresentante diplomatica della Santa Sede, e racconta le sue concrete esperienze di sostenitrice della dignità dell'essere umano in varie occasioni, che spesso coincidevano con le visite di Giovanni Paolo II. Un esempio è l'aiuto alla rivoluzione non violenta del 1984 che ha liberato le Filippine dalla dittatura di Marcos, sotto la guida di un cardinale cattolico sostenuto dal Papa, oppure delle trattative che hanno preceduto il viaggio del Pontefice a Cuba, e che hanno portato non solo all'alleggerimento della pressione del regime sui cattolici e sulla Chiesa cubana, ma anche, nei mesi successivi, al rilascio di duecentocinquanta prigionieri politici.
Ma l'influenza più importante sul piano dei diritti umani la Santa Sede l'ha registrata alle conferenze mondiali delle Nazioni Unite: prima durante quella del Cairo, del 1994, "per la popolazione e lo sviluppo", l'anno dopo in quella di Pechino, dedicata ai diritti delle donne. In entrambe le situazioni, l'intervento della Santa Sede è stato decisivo per guidare una opposizione all'allargamento della nozione dei "diritti riproduttivi" all'aborto, in nome del diritto principale, quello di rispetto di ogni vita umana. Per raggiungere questi risultati, spiega la giurista norvegese, anche i rappresentanti della Santa Sede, oltre ai tradizionali canali diplomatici, hanno saputo usare i canali informali così importanti per la formazione dell'opinione pubblica, come la stampa, con coraggio e perfino una certa spregiudicatezza.
La situazione oggi - scrive Matláry - si dibatte all'interno di due contraddizioni: "Mentre l'Europa e l'Occidente lodano il resto del mondo quando rispetta i diritti umani e arrivano perfino a porre questi ultimi come condizione per fornire aiuti umanitari e cooperazione, i politici europei si rifiutano di stabilire in maniera obiettiva quali siano i contenuti reali di questi diritti. In secondo luogo, ci si richiama sempre più a questi diritti, ma se ne sminuisce l'autorità, mettendo in dubbio la certezza che essi possano essere definiti in una maniera chiara e obiettiva".
In Europa, infatti, non solo non c'è una chiara base per i diritti umani - lo rivela la costituzione dell'Unione europea che ha escluso dai propri principi preliminari i concetti chiave di "innato" e di "inalienabile" - ma è in corso un aspro scontro relativo alla loro interpretazione, come per quanto riguarda la contraddizione fra il "diritto alla vita" e prassi ormai autorizzate in molti paesi come l'aborto e l'eutanasia. Questo rifiuto a definire i valori che stanno alla base della democrazia europea, quindi, denota una avanzata tendenza al soggettivismo totale. Questo non di rado sfocia in un vero e proprio nichilismo che - non bisogna dimenticare - prepara la strada al totalitarismo. Il problema diventa sempre più acuto perché, ormai, l'evoluzione di uno Stato non si basa più su un'identità nazionale, ma sui diritti umani, come mostrano i casi sempre più frequenti di ricorso al tribunale europeo dei diritti umani, i cui giudizi poi influenzano la legislazione nazionale. Se i diritti umani sono, come diciamo spesso con orgoglio europeo, "il nostro dono al mondo", il nostro maggiore "successo di esportazione", dobbiamo guardare con preoccupazione al fatto che ci rifiutiamo di definirli come universalmente validi e durevoli, addirittura eterni.
Il problema di fondo è che non crediamo più che esista una "natura umana" uguale a se stessa, e capace di discernere il bene dal male: di conseguenza, non possono più esservi diritti umani prestabiliti. Al contrario, essi possono essere di volta in volta modificati e ridefiniti, a seconda dei gruppi di potere politico e culturale dominanti. Se il proprio io e le proprie preferenze e interessi individuali diventano l'unico sistema di riferimento, i diritti dell'uomo non sono altro che il frutto di un processo politico, destinati quindi a continuo cambiamento.
Insomma, non solo manca la fiducia nella capacità di pervenire a una verità obiettiva sulla natura umana, infatti, ma viene contestata - e considerata addirittura fondamentalista - l'idea stessa di verità. Siamo in mano, allora, a quelli che Matláry chiama "imprenditori delle norme", cioè coloro che, manipolando l'opinione pubblica attraverso un uso spregiudicato della stampa, e agendo attraverso le proposte di cambiamento avanzate da molte organizzazioni non governative, cercano di cambiare i diritti umani, e di ampliarli verso direzioni contradditorie - come i cosiddetti "diritti riproduttivi" che dovrebbero contemplare il "diritto di aborto" - che li snaturano. Per avere successo in questa campagna, che poi facilmente si afferma su scala mondiale, bisogna avere "un buon fondamento scientifico (che oggi si può ottenere per ogni ipotesi) - scrive Matláry - e una citazione di un documento internazionale". Un esempio di questo tipo di azione è la pressione esercitata sia per motivi positivi, come il far mettere fuori legge le mine antiuomo, ma anche per far accettare il matrimonio degli omosessuali da parte di gruppi di femministe e di omosessuali.
Il relativismo applicato ai diritti umani deriva dalla crisi in cui è caduto il concetto di diritto naturale, crisi che l'autrice fa risalire storicamente alla riforma protestante e alla sua perdita di visione universalista di diritto superiore, mantenuta invece dalla tradizione cattolica, che assicura anche la continuità storica del diritto romano. È proprio questa la base culturale su cui si fonda la posizione della Chiesa durante il pontificato di Giovanni Paolo II, fedele sostenitrice dei diritti umani, ma al tempo stesso critica a proposito della loro mancanza di fondamento nel diritto naturale, esercitata, come Matláry esemplifica, in casi emblematici della diplomazia pontificia, da lei vissuti in prima persona. Una linea di pensiero sviluppata teoricamente nelle critiche al relativismo di Benedetto XVI, alle quali si rifanno sia la giurista norvegese sia, nella prefazione, la Glendon. In sostanza, si tratta di una scelta culturale critica, approfondita e razionale, che fa capire con chiarezza come le posizioni sostenute dalla Chiesa siano sensate e ragionevoli anche per chi non crede, e, anzi, siano le uniche a offrire una via di uscita dalla crisi culturale in cui versa l'Occidente, e in particolare l'Europa.

 

(© L'Osservatore Romano 31/10/2007)