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Israele
e il futuro del Vicino Oriente

 

di Luca M. Possati


"Lo Stato di Israele [...] incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace [...]". Con queste parole, il 14 maggio 1948, le autorità israeliane proclamavano l'indipendenza di Israele. Pochi mesi prima, il 19 novembre 1947, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato una risoluzione per dividere la Palestina sotto mandato britannico in due Stati, uno arabo e uno ebraico, legati da un'unione economica.
Oggi, in una situazione profondamente diversa, quale futuro immaginare per lo Stato di Israele e il Vicino Oriente? La formula "due popoli e due Stati", tanto sponsorizzata dall'amministrazione Bush, è ancora una soluzione valida? Oppure esistono vie diverse di compromesso?
A dare un significato particolare alla ricorrenza dei sessant'anni dello Stato di Israele - le festività iniziano mercoledì 7 maggio con una cerimonia militare sul monte Herzl - è l'attuale situazione regionale segnata dalla crescente tensione. A circa cinque mesi dalla conferenza di Annapolis, il vertice promosso dagli Stati Uniti che ha rilanciato i negoziati tra Israele e Autorità palestinese (Ap) dopo sette anni di stallo e di Intifada, sul terreno non si registrano passi in avanti e le intese annunciate nel Maryland sono rimaste buoni propositi.
Per rilanciare le trattative il prossimo 13 maggio il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, si recherà, per la seconda volta nel suo mandato, in Israele (dove terrà anche un discorso alla Knesset), in Arabia Saudita e in Egitto, dove avrà una serie di colloqui con il presidente egiziano Hosni Mubarak, il sovrano di Giordania, Abdullah II bin Hussein, e il leader dell'Ap, Abu Mazen. Bush si è impegnato a fare "tutto il possibile" per giungere a un accordo tra israeliani e palestinesi entro la fine del gennaio 2009, quando dovrà lasciare la Casa Bianca.
Dopo la strage alla scuola rabbinica Mercaz Haraz, nel cuore di Gerusalemme, dove circa un mese fa un estremista palestinese penetrato nell'edificio uccise otto studenti israeliani, la contrapposizione tra Israele e Hamas ha conosciuto un'escalation di violenza e terrore:  nuovi lanci di razzi contro le località israeliane al confine, quotidiani combattimenti e uccisioni.
A pagare il duro prezzo del conflitto sono anzitutto gli abitanti della Striscia di Gaza controllata da Hamas, stremati dall'embargo israeliano. Nelle scorse settimane l'Unrwa (l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) ha annunciato di essere costretta a sospendere le proprie operazioni assistenziali nella Striscia per il completo esaurimento delle scorte di carburante provocato dalla chiusura del terminal petrolifero israeliano di Nahal Oz, chiusura decisa dopo un attentato palestinese nel quale vennero uccisi due civili israeliani. Le autorità di Tel Aviv hanno giustificato questo ulteriore inasprimento dell'embargo con le inadempienze delle società palestinesi di distribuzione e con i disordini provocati da Hamas.
E tuttavia, oltre alle violenze e alla crisi umanitaria, c'è un altro fattore negativo nel processo di pace:  l'instabilità politica interna a Israele e all'Ap. Al momento il primo ministro Olmert non sembra essere un leader dotato di effettivo potere negoziale. Oltre all'inchiesta avviata dalla polizia nei suoi confronti, il leader di Kadima, successore di Ariel Sharon, dipende dal sostegno del partito ultraortodosso Shas che si oppone a qualsiasi concessione all'Ap sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania. Oggi alla Knesset sono in molti a chiedere che il premier si autosospenda e la possibilità di elezioni anticipate non è affatto remota.
Sul versante palestinese, finora i tentativi da parte egiziana di una mediazione tra Hamas e Al Fatah non hanno dato i risultati sperati. Secondo l'intelligence israeliana, il Movimento di resistenza islamico dispone di un vero e proprio esercito composto da 20.000 uomini. L'uomo forte è Ahmed Jaabari, comandante di oltre 10.000 membri delle Brigate Ezzedin Al Qassam dislocati in tutta la Striscia. Ad essi si aggiungono 6.000 unità delle forze di polizia, per non parlare dei combattenti aderenti ad altri gruppi estremisti come la Jihad islamica e delle cellule in Siria e Giordania.
Da tutta questa serie di elementi, quali scenari ipotizzare?
Come riferiscono gli analisti internazionali, vista la situazione attuale in Cisgiordania, sono ben poche le probabilità che in un prossimo futuro possa sorgere uno Stato palestinese autonomo e con continuità territoriale. Secondo il recente rapporto del movimento pacifista Peace Now, dopo Annapolis il Governo israeliano non ha congelato un solo progetto di costruzione. Anzi, sono stati portati a termine 220 edifici in 37 insediamenti e aperti 275 cantieri. Nonostante le promesse, proseguono sia la costruzione della barriera di separazione (ormai è stato completato il 57 per cento del progetto), sia la distruzione delle abitazioni palestinesi (tra gennaio e febbraio sono state demolite 111 strutture, 51 delle quali a uso residenziale, e così sono rimaste senza casa 381 persone).
C'è poi un ultimo dato, quello demografico, a parere di molti il più decisivo. Secondo le proiezioni, nel 2050 gli ebrei israeliani nella regione potrebbero ridursi ad appena il 37 per cento della popolazione (oggi sono il 55 per cento). "L'attuale tasso di natalità degli ebrei - spiega Sergio Della Pergola, direttore della Divisione di demografia e statistica all'Università di Gerusalemme - è di 2,7 figli per donna, contro i quasi quattro degli arabi israeliani". E il dato sale se si prende in considerazione Gaza, dove la media di figli per donna è di 5,6. Cifre che non restano sulla carta, e con le quali i leader di domani dovranno fare i conti.

 

(© L'Osservatore Romano 7 maggio 2008)