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Un principio costitutivo di ogni democrazia

 

La vita umana non è disponibile

 

di Adriano Pessina
Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica
Università Cattolica del Sacro Cuore


Sono molti i motivi che inducono a dissentire dalla sentenza della Corte d'appello civile di Milano che autorizza Beppino Englaro, in qualità di tutore, a ottenere l'interruzione del trattamento di idratazione e alimentazione che da sedici anni permette alla figlia, Eluana, di continuare a vivere. I due criteri introdotti per autorizzare questa sospensione fanno riferimento sia alla volontà di Eluana, sia alla sua condizione di perdita irreversibile della coscienza. Stando a una ricostruzione basata su diverse testimonianze, Eluana avrebbe espresso il desiderio di non vivere "senza essere cosciente, senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri". Nella sentenza si cita, di sfuggita, l'"impostazione cattolica" propria di Eluana, ma si ritiene che non possa contrastare le altre dichiarazioni.
Qualche considerazione:  in Italia non esiste il cosiddetto "testamento biologico", che di per sé è un documento scritto alla presenza di testimoni, e che può essere cambiato in ogni momento, per cui risulta un'evidente forzatura attribuire una rilevanza decisiva a una volontà pregressa, indirettamente ricostruita, non univoca, per sospendere trattamenti ordinari. In secondo luogo, la questione è metodologicamente mal posta. Chi vorrebbe vivere in uno stato vegetativo, o avere una demenza senile, o perdere la coscienza di sé? Nessuno.
La domanda legittima è un'altra:  quando una persona non è più in grado di accudire se stessa che cosa è doveroso fare, e che cosa è doveroso evitare? In linea di principio nessun testamento biologico dovrebbe avallare né l'eutanasia (che comporta l'uccisione diretta del paziente), né l'abbandono terapeutico, o assistenziale (che determina la morte della persona, ed è moralmente grave tanto quanto la stessa eutanasia).
Non è necessario ricorrere a una concezione religiosa della vita, o negare la possibilità legale e morale di rifiutare trattamenti sproporzionati o inadeguati, per dissentire da questa sentenza:  basta sottolineare che nel caso di Eluana si impone di fatto l'interruzione di un lungo processo di accudimento, fatto di attenzione, di amorevole dedizione e di rispetto per la sua dignità personale, che gli stessi protagonisti del ricorso alla Corte di Appello hanno sempre riconosciuto. E questo perché? Perché non è cosciente di sé? Il tema della coscienza è un tema molto delicato da trattare. Ma se Eluana non è davvero cosciente di sé, allora non soffre, e non si capisce perché - se non per un ostinato impianto ideologico a cui uno Stato cosiddetto laico dovrebbe dirsi metodologicamente estraneo tanto quanto a ogni confessione religiosa - la si debba condannare a morte, tramite una lenta agonia.
Nella sentenza, per coerenza con la tesi per cui Eluana dovrebbe essere priva di coscienza, non si parla di farla morire per fame e sete (quando manca la coscienza si parla di disidratazione e consunzione), ma si raccomanda l'uso di "sedativi o antiepilettici" per "eliminare reazioni neuromuscolari paradosse" e si consiglia "umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee a eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene e dell'abbigliamento del corpo". Ma se davvero Eluana non è cosciente e se la sua, come si legge nella sentenza, è pura vita biologica, per quale motivo tante attenzioni? La risposta è semplice:  perché, malgrado la pressione ideologica, risulta difficile, persino a questi giudici, dimenticare che la vita di Eluana è sempre e comunque una vita personale. Chiediamoci:  ma davvero sono crudeli coloro che finora si sono presi cura di Eluana, o non lo sono coloro che la condannano all'agonia e alla morte?
Altrettanto discutibile è il potere di vita e di morte che di fatto viene attribuito alla figura del tutore, che dovrebbe agire nel miglior interesse della persona che gli è affidata. Ora, affinché sia impedito ogni arbitrio, bisognerebbe limitare qualsiasi decisione sulla vita delle persone e si dovrebbe garantire a ogni cittadino la certezza che il valore della sua esistenza non verrà determinato in base ad alcuna particolare concezione antropologica. Solo così si garantisce il principio, costitutivo di ogni democrazia, della non disponibilità della vita umana e della sua intrinseca dignità, che non è un possesso che si possa acquisire o perdere, ma il segno dell'incommensurabilità della vita umana stessa, che non ha prezzo e che è fondamento dei diritti umani. La stessa medicina rischia di perdere la propria autonomia e diventare uno strumento di discriminazione quando accetta di sospendere trattamenti ordinari a motivo di una decisione che non ha fondamento clinico:  si incrina il dovere costitutivo del prendersi cura di tutti i pazienti che non sono in grado di intendere e di volere.
Questa sentenza e questa scelta del padre, comunque, non fermeranno le battaglie quotidiane che i parenti dei molti pazienti che sono nelle condizioni di Eluana stanno combattendo per ottenere strutture adeguate e personale qualificato in grado di prendersi cura dei loro familiari, che vivono in una particolare condizione di gravissima disabilità. Questa sentenza non rappresenta certo il welfare che ci si aspetta da una civiltà del diritto.

 

(© L'Osservatore Romano 11 luglio 2008)