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Il tracollo dei mercati

Chi paga il costo della crisi


di Simona Beretta
Docente di politiche economiche internazionali
Università Cattolica del Sacro Cuore

Ci stiamo avvicinando alla fine di una settimana terribile:  momenti di tensione concitata sui mercati finanziari statunitensi sono stati seguiti da decisioni politiche di segno contrastante, almeno all'apparenza. Ad oggi, tre delle cinque principali banche di investimento di Wall Street - Bear Stearns, Lehman Brothers e Merril Lynch - non esistono più come entità autonome. Nel marzo di quest'anno la Bear Stearns, grazie alla copertura di prestiti inesigibili da parte della Federal Reserve Bank di New York per 29 miliardi di dollari, è stata acquisita dalla JP Morgan Chase. Il 15 settembre, la Bank of America ha acquisito Merril Lynch, mentre la Lehman Brothers è stata costretta a dichiarare fallimento, in assenza di sostegno finanziario pubblico.
Il ruolo delle autorità è stato ben diverso per altre istituzioni:  pochi giorni prima erano stati nazionalizzati i due giganti del prestito immobiliare statunitense Fannie Mae e Freddie Mac; qualche giorno dopo, la Federal Reserve si è accollata l'impegno di un prestito di 85 miliardi di dollari per tamponare la gravissima situazione finanziaria di Aig, il "gigante" delle assicurazioni.
Il filo che collega tutte queste vicende è la prassi finanziaria che consiste nel massiccio utilizzo di strumenti sofisticati derivati che permettono di scorporare, re-impacchettare e collocare alcune componenti di rischio presso altri investitori. La distanza (geografica, o temporale) fra il punto di origine del rischio e il suo detentore ultimo può essere enorme; di conseguenza, la diffusa irresponsabilità e la sconnessione del mercato finanziario spiegano come mai, dopo molti mesi dall'inizio della crisi dei subprime, si stiano ancora contando le sue vittime. La sconnessione spiega anche perché una crisi già aperta da mesi può, ad un tratto, fare tante vittime illustri in poco più di una settimana:  in mancanza di informazioni certe su chi è responsabile di quali rischi, il timore dell'estensione della crisi stessa si traduce facilmente in comportamenti (vendere tutto, smettere di fare prestiti..) che contribuiscono a realizzare proprio ciò che si temeva.
Senza entrare nella valutazione tecnica delle decisioni delle autorità finanziarie statunitensi. proviamo a mettere a fuoco alcuni dei punti di domanda che tali decisioni sollevano. Innanzitutto, parliamo dei salvataggi, che comportano una forte spesa pubblica. Complessivamente, è ragionevole stimare che, per gestire la crisi finanziaria in corso, le finanze pubbliche statunitensi si siano finora accollate nuovi debiti per oltre 200 miliardi di dollari - grosso modo, l'equivalente della spesa necessaria per sostenere un anno di guerra in Iraq. Ma se, come è ragionevole supporre, l'elenco delle istituzioni finanziarie pericolanti si allungherà, l'impegno fiscale statunitense potrebbe diventare molto maggiore. Sono ben spesi, in questo caso, i soldi dei contribuenti? Certo, servono a spalmare, anche nel tempo, i costi di una crisi ormai consumata e ad evitare il diffondersi del rischio sistemico. Tuttavia, ciò significa che qualcuno che ha avuto responsabilità nella cattiva gestione del rischio non pagherà, o pagherà un po' meno, per i suoi errori; mentre qualcun altro (forse non del tutto colpevole) ha già pagato:  può aver perso la casa, o il lavoro. A questo proposito, bisogna riconoscere che la decisione delle autorità di non sostenere finanziariamente la Lehman e la Merril Lynch ha caricato almeno una parte dei costi della crisi finanziaria sugli attori stessi del mercato.
Qui si collega un secondo problema. La gestione della crisi finanziaria che stiamo attraversando documenta in modo plastico il paradosso delle istituzioni too big to fail ("troppo grandi per fallire"). Abbiamo visto in certi casi che è possibile lasciar fallire le piccole istituzioni finanziarie, facendo loro pagare le conseguenze di errori di gestione o di previsione; ma è molto più difficile non procedere alle operazioni di salvataggio quando gli errori di grandi istituzioni finanziarie pregiudicano, oltre alla loro solvibilità, anche la stabilità del sistema. Non è cosa nuova:  le crisi debitorie dei Paesi piccoli e poveri lasciano indifferenti i mercati e i governi, mentre si interviene immediatamente a limitare l'impatto della crisi di Paesi grandi o strategicamente importanti. Ma almeno occorre essere consapevoli di questa asimmetria di trattamento.
Poi c'è il problema della regolamentazione dei mercati finanziari. È evidente che occorrono regole. Ma è difficile identificare quali debbano essere. Fannie Mae e Freddie Mac sono due istituzioni minuziosamente supervisionate, tuttavia, questo non le ha salvate dalla crisi. Altre regole hanno addirittura giocato un ruolo alla rovescia, come nel caso delle regole sui coefficienti di adeguatezza patrimoniale. Si tratta di sagge regole prudenziali, che limitano l'ammontare dei prestiti in funzione del capitale proprio; ma il massiccio ricorso a operazioni finanziarie fuori bilancio - quali le operazioni in derivati - hanno permesso di scavalcare legalmente le limitazioni. In generale, la miglior regolamentazione che oggi possiamo disegnare può solo essere basata sull'esperienza di ieri:  quindi, essa rincorre le crisi e difficilmente può prevenirle. È però necessario mettere a frutto almeno gli insegnamenti del passato:  il fallimento della Barings nel 1995, a seguito di operazioni in derivati effettuate da un solo dipendente; il collasso dello hedge fund Ltcm nel 1998 avrebbero potuto e dovuto concentrare gli sforzi delle autorità (statunitensi, ma non solo) sul comparto dei derivati, rendendo più trasparente la loro contabilizzazione e limitando il ricorso eccessivo alla leva finanziaria.
Non aspettiamoci però la stabilità dei mercati finanziari dalla lettera delle regole:  la finanza è, nella sua essenza, un patto fiduciario che deve reggere la prova del tempo e dell'incertezza. Ha bisogno della responsabilità delle persone che quotidianamente la fanno; ha bisogno che queste persone alzino lo sguardo dall'obiettivo di profitti di breve periodo, facili ma rischiosi, per individuare occasioni di investimento solide, reali. Ha bisogno dell'impegno di studiosi e docenti non solo sui meccanismi tecnici della finanza, ma sulla sua natura e sulla sua storia.

 

(© L'Osservatore Romano 20 settembre 2008)