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Gli scontri a Hebron

La seconda
intifada ebraica


di Luca M. Possati

Tensione e cieca violenza. Scontri senza tregua, che non risparmiano nessuno, in una città divisa da muri di incomprensione. In questi giorni Hebron è tornata a essere l'epicentro del conflitto israelo-palestinese. In una fase politica estremamente delicata da entrambe le parti:  mentre Israele si prepara ad andare alle urne il prossimo 10 febbraio per ridare slancio a una leadership in crisi di identità, il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen, il cui mandato scade a gennaio, cerca di far ripartire il dialogo con Hamas in nome di un'unità popolare divenuta sempre più difficile da difendere.
Ma Hebron è anzitutto il simbolo delle contraddizioni interne all'attuale società israeliana. Il clima di tensione e le nuove violenze sono il prezzo della decisione del ritiro unilaterale da Gaza nel 2005 - voluto dall'allora primo ministro Ariel Sharon - quando ottomila coloni furono fatti sgomberare con la forza. L'incapacità di guadagnare posizioni da parte dei propri leader provocò all'interno del movimento dei coloni non poche tensioni, con il sorgere di frange estremiste votate alla semi-anarchia influenzate da rabbini considerati "eversivi". Anche per questo, i fatti di Hebron potrebbero avere un peso decisivo nelle politiche di febbraio, determinando la sconfitta del Kadima - il partito fondato da Sharon dopo l'uscita dal Likud - e una vittoria dei "falchi" della destra. Non a caso Ehud Olmert - premier ormai dimissionario, tra i principali sostenitori del ritiro da Gaza - si è affrettato a condannare le violenze definendole un "pogrom dei coloni contro i palestinesi" e ha lanciato dure critiche al Likud che, se andrà al potere "rischia di portare Israele in un angolo di isolamento".
Negli ultimi giorni a Hebron sembra essere tornata la calma. L'Autorità palestinese ha chiesto l'intervento di una forza internazionale dell'Onu in Cisgiordania. L'edificio oggetto della contesa tra gli abitanti palestinesi e i coloni è stato fatto sgomberare da Tsahal - come deciso dalla Corte suprema israeliana che ha riconosciuto la proprietà palestinese - e dichiarato zona militare chiusa.
"Da sempre Hebron è il termometro delle tensioni in Cisgiordania - spiega una volontaria dell'Organizzazione internazionale "Operazione Colomba" - quando i rapporti tra palestinesi e israeliani entrano in una nuova fase di conflitto è qui che si cominciano a vedere i problemi in arrivo". Ma ormai la situazione è diventata intollerabile:  "L'aggressività crescente dei coloni israeliani - dice la volontaria - sta diventando un problema che anche gli israeliani cominciano a temere e spesso capita che, oltre ai palestinesi, vengano feriti nelle aggressioni e nelle sassaiole anche soldati ai quali i coloni non riconoscono alcuna autorità".
In virtù di un accordo del 1997 Hebron - Al Khalil, "amico" in arabo - è divisa in due:  la zona Hebron-1, dove vivono circa 130.000 palestinesi, e la zona Hebron-2, dove si trova la Tomba dei Patriarchi, luogo sacro a ebrei e musulmani, e risiedono 34.000 palestinesi, circa 600 coloni ebrei e 1.500 militari israeliani. "L'esercito proibisce di fatto alle associazioni internazionali di entrare nella città - racconta ancora la volontaria - e le misure restrittive imposte anche alla popolazione palestinese stanno strangolando l'economia dell'intera zona". Se per i civili israeliani è legale accedere alla zona palestinese della città, i cittadini palestinesi sono invece sottoposti - come in gran parte dei Territori occupati - a un soffocante sistema di controlli e posti di blocco per entrare nell'area sotto il controllo israeliano. Si tratta - come più volte denunciato dalla comunità internazionale - di una grave violazione della libertà di movimento.
Come racconta Hafez Huraini, palestinese del villaggio Tuwani e membro dell'organizzazione South Hebron Hills Committee, "a Hebron e nel resto dei Territori siamo costantemente assediati, vessati:  le nostre case vengono distrutte in base alla motivazione che non abbiamo licenza di costruire, ma nessuno, nonostante lo abbia richiesto, ha mai ottenuto un permesso". L'unica strada che gli abitanti di queste terre possono seguire - testimonia Huraini - è quella della non violenza, secondo due modalità:  rivolgendosi alle autorità giudiziarie israeliane e moltiplicando gli sforzi per attirare l'attenzione degli organi di informazione internazionali. "In questo modo - aggiunge Huraini - siamo riusciti a impedire che demolissero la scuola del nostro villaggio, l'unica nell'area; nel 1998 abbiamo ottenuto da un tribunale una sospensione di dieci anni dell'ordine di demolizione che scade proprio adesso, ma che speriamo venga annullato; abbiamo anche costretto il Governo di Israele a intervenire per evitare che i nostri bambini venissero ogni volta minacciati lungo il percorso che porta alla scuola".

 

(© L'Osservatore Romano 11 dicembre 2008)