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Per un vero patto di cittadinanza

Obama, Lincoln
e gli angeli


di Robert Imbelli

Il giorno dell'insediamento di Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato denso di immagini suggestive, rilanciate in tutto il mondo da una miriade di telecamere. Immagini che ritraevano un oceano di persone dal Campidoglio, lungo il National Mall e fino al Lincoln Memorial. Giovani e anziani, neri e bianchi. Alcuni ridevano, altri piangevano di gioia. Poi, le immagini del giovane presidente. Che, figlio di un padre africano nero e di una madre americana bianca, realizza, al di là di qualsiasi aspettativa, il sogno profetico di Martin Luther King.
La grande quantità e la qualità delle immagini hanno forse offuscato il discorso di insediamento del nuovo presidente, che, con il realistico riconoscimento della crisi in atto e l'esortazione a nuove responsabilità, è apparso forse sin troppo freddo di fronte all'esuberante atmosfera della giornata. Ma se le immagini svaniscono, le parole restano, e offrono orientamento alla nazione. E così rileggere quelle parole suggerisce alcune riflessioni.
Sebbene la parola "patto" non sia stata esplicitamente utilizzata nel discorso, sembra che il presidente esorti a una rinnovata alleanza dei cittadini in quel ricco mosaico che costituisce gli Stati Uniti. Obama ha mostrato consapevolezza del fatto che il rinnovato impegno per un patto sociale e politico tra gli americani si verifichi in un contesto e in una situazione globale nuovi. "Il mondo è cambiato - ha affermato - e noi dobbiamo cambiare con esso". Infatti, "se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa, e l'America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace". Si tratta di un riconoscimento che ha suscitato reazioni positive. Tuttavia, il rinnovamento che esso comporta passerà per un ritorno a valori tradizionali come "duro lavoro e onestà, coraggio e correttezza, tolleranza e curiosità".
Con una dichiarazione fortemente retorica, il presidente ha inoltre dichiarato:  "Tutto questo è antico. Tutto questo è vero". Obama ha illustrato la forza di questi valori antichi ma veri, portando l'esempio degli antenati dell'America attuale, che hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita, che si sono adoperati, in libertà e in schiavitù, per creare una nuova nazione, che hanno lottato e sono morti per difendere l'Unione e per difendere la democrazia. Il ritornello intonato per evocare questa schiera di testimoni è semplice ed è stato ripetuto più volte:  per noi "questi uomini e queste donne hanno lottato e si sono sacrificati", e questo "per permettere a noi di vivere una vita migliore".
L'appello del nuovo presidente ai suoi concittadini è stato quindi di impegnarsi ancora una volta per il bene comune e scegliere ciò che è utile per tutti. E, sebbene "tutti" includa sicuramente "cristiani e musulmani, ebrei, indù e non credenti", il presidente non ha esitato ad affermare che la ricerca del bene comune si basa su un imperativo e su un'ispirazione di Dio. "Che tutti siamo uguali, che tutti siamo liberi" è una "promessa divina". Mentre l'origine della fiducia nel servizio al bene comune e nel sacrificio necessario è "la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto".
Uno dei passaggi più interessanti del discorso è stato il seguente:  "Siamo ancora una nazione giovane, ma - come dicono le Scritture - è arrivato il momento di abbandonare le cose da bambino". I giornali hanno sottolineato brevemente questa frase per il riferimento biblico, ma non hanno cercato di spiegarla. Le parole sono, naturalmente, quelle di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (13, 11). Di fronte alle divisioni che affliggono la comunità di Corinto e all'abuso dei doni destinati al bene comune, l'apostolo esorta all'unità del corpo di Cristo e alla "via migliore di tutte, la via della carità". Tuttavia, Paolo capisce che discernere e operare la carità richiede una maturità spirituale che non si può dare per scontata, ma che bisogna perseguire.
Il presidente Obama non agisce come un predicatore cristiano. Non ne ha né il ruolo né la competenza. Tuttavia, con questo riferimento esplicito a san Paolo, sembra lasciare capire che un'analoga maturazione spirituale è necessaria se il corpo politico vuole sopravvivere e prosperare. E questa maturazione spirituale non è solo nostro compito. È innanzitutto un dono di grazia. L'aspetto profano e quello sacro non sono facilmente distinti, come dimostra la conclusione del suo discorso di insediamento:  "Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che, quando siamo stati messi alla prova, non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e che non siamo caduti. E con gli occhi fissi sull'orizzonte e con la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l'abbiamo consegnato intatto alle generazioni future".
Di fronte a questo auspicio si può soltanto dire:  amen. Ma si comprende anche, come ha fatto Obama, l'enormità della sfida. È noto che il nuovo presidente si sente particolarmente legato a uno dei più grandi presidenti americani, Abraham Lincoln, che emancipò gli schiavi e difese l'Unione. Come Lincoln, anche Obama è un avveduto figlio della politica dell'Illinois. Il secondo discorso di insediamento di Lincoln, del 1865, è uno dei più brevi e, di certo, il più grande dei discorsi presidenziali di insediamento nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia, ascoltare il presidente Obama mi ha ricordato il primo e meno famoso discorso di Lincoln, quello del 1861. Un discorso pronunciato quando era palpabile la paura non della recessione, ma della secessione. Lincoln cercò di rassicurare il Sud, anche se affermò che la secessione era un atto illegale. Concluse il suo lungo e sobrio discorso con un appello ai "vincoli di affetto" fra Nord e Sud, ed elevò  una  preghiera  affinché  prevalessero "gli angeli migliori della nostra natura".
In circostanze radicalmente diverse, questa resta la speranza e la preghiera dell'America. Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati. Preghiamo affinché i vincoli d'affetto della nazione raggiungano anche loro. Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza.

 

(© L'Osservatore Romano 28 gennaio 2009)