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Pacatezza ed equilibrio per la vicenda Englaro

La dignità della morte


di Lucetta Scaraffia

Quest'ultima fase della penosa vicenda Englaro sembra essere quella della verità:  la realtà sta prendendo infatti il sopravvento sulle versioni ideologicamente esasperate che hanno prevalso sui media sino a poco fa. Da una parte, chi diceva che Eluana in realtà era morta diciassette anni fa, e via con le solite tirate sulla vita - o morte? - dignitosa, e sulla libertà di ciascuno di disporre di sé e della propria vita. Dall'altra, in mezzo a tanti discorsi seri e sensati, a tante difese coraggiose e convincenti della vita di questa povera donna, anche toni un po' esaltati ed esibiti, talora con accenti eccessivi, proprio quando sono così importanti la pacatezza e l'equilibrio.
Ma da quando Eluana è stata trasportata di notte da Lecco a Udine per morire, ecco che tutto cambia:  si viene a sapere che per morire ci metterà da due a tre settimane, che sarà necessario somministrare dei sedativi - perché non possiamo essere sicuri che non senta dolore - e che ci vorrà un'équipe di medici e di volontari per assisterla. Allora, anche chi non aveva voluto informarsi seriamente, chi pensava che si trattasse semplicemente di un caso di accanimento terapeutico, comincia ad avere dei dubbi:  il fatto che questa donna sia viva e non tenuta in vita da macchine, che non sia una paziente moribonda, balza finalmente agli occhi di tutti. Non sono più le parole di un medico contro un altro, ma è la realtà che parla. Così pure l'ammissione - anche da parte del neurologo Carlo Alberto Defanti, medico curante solidale con il padre - che non sappiamo se soffrirà o no, fa capire come in fondo, a proposito dei livelli di consapevolezza di Eluana, non si possa escludere nulla.
Sempre in questi ultimi giorni, il tentativo del procuratore della Repubblica di Udine di riaprire il fascicolo relativo alla sentenza del tribunale lombardo che ha accettato la tesi di Beppino Englaro non ha avuto esito, ma è servito a dare voce a nuovi testimoni, non ascoltati nel procedimento, importanti e attendibili. In sostanza, emerge con chiarezza che la sentenza alla fine favorevole alle ragioni del padre sia, a dire poco, controversa.
Questo fatto, naturalmente gravissimo, mostra come sia difficile, se non impossibile, appurare le intenzioni sulla propria vita non espresse per scritto, davanti a testimoni, in modo chiaro e indiscutibile. E senza aprire il problema - altrettanto delicato e reale - di un possibile cambiamento qualora ci si trovi in condizioni di malattia, già solo le difficoltà di accertamento della volontà fanno comprendere a quale fragile e inconsistente filo sia legata l'utopia della libertà di disporre della propria vita.
Privata della protezione di una legge che la consideri essere umano anche nelle condizioni di stato vegetativo persistente, che non la lasci in balia dei desideri - se pure dolorosamente comprensibili - dei familiari provati dalla disgrazia, Eluana viene condotta a una morte che si avvicina molto più all'eutanasia che al rifiuto di cure sproporzionate.
Questo caso, lacerando l'Italia e costringendoci a riflettere, ha messo in luce tutte le ambiguità che stanno dietro le ideologie, in apparenza pietose, della morte dignitosa e della libertà di disporre della propria vita. E fa capire, più di mille discorsi, quale può essere la deriva di una società che decide chi non è più "degno di vivere" promuovendone la morte, una società per cui la morte diventa un confine convenzionale e non naturale, quindi da definirsi attraverso leggi e pareri medici. Il tutto sempre velato dal mito della libertà individuale, che sembra raggiungere il suo apice nell'ottenimento del diritto di decidere della propria fine.
Questo discorso risulta poi particolarmente fuori luogo, e giustificato solo dall'ideologia, se lo confrontiamo con il modo in cui si muore nelle nostre società occidentali:  chiunque ha assistito un parente gravemente malato sa che fino all'ultimo al paziente viene celata la prossimità della morte, come se fosse qualcosa di indicibile e insopportabile, per lui e per le persone che gli stanno intorno. In genere, oggi si tende a circondare la morte di veli, facendo di tutto per ignorare che si sta per morire:  e questa sarebbe la morte dignitosa? Dal momento che la morte è parte fondamentale della vita umana, questa sua rimozione, sulla quale sono state spese tante pagine di storici, sociologi e filosofi - senza però incidere sulla realtà del vissuto - costituisce una prova dell'abbrutimento culturale in cui viviamo.
Se non si ha il coraggio di guardare negli occhi una persona cara che sta per morire, dicendo la verità e aiutandola, come si può parlare di morte dignitosa per Eluana? Come possiamo discutere di "disponibilità della vita"? È da lì che dobbiamo cominciare per pensare a una morte davvero dignitosa, senza lasciarci condizionare dalle ideologie di chi vorrebbe decidere per una persona debole, quando non è più in grado di difendersi.

 

(© L'Osservatore Romano 8 febbraio 2009)