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Senza soluzione le principali crisi 

Il Sudan
non trova pace


di Pierluigi Natalia

Il Sudan non trova pace:  mentre appare lontana la soluzione della crisi nel Darfur, ciclicamente si riaccendono e sfociano in nuove violenze le tensioni nel Sud Sudan. Non si è ancora consolidato, infatti, l'accordo di pace firmato il 9 gennaio 2005 tra il Governo di Khartoum e l'allora Esercito di liberazione del popolo sudanese, oggi trasformato in movimento e guidato da Salva Kiir Mayardit, che ha il duplice ruolo di presidente del Sud Sudan autonomo e di primo vice presidente del Governo centrale.
L'accordo, che pose fine a ventuno anni di guerra civile, è stato messo più volte a rischio in questi quattro anni. I sudsudanesi sono insoddisfatti dell'attuazione dei suoi punti chiave:  il ritiro delle forze federali dai campi petroliferi dell'Abyei - le cui risorse sono rivendicate da entrambe le parti - e una demarcazione del confine.
Ancora questa settimana, ci sono stati scontri nella città di Makalal tra gli ex ribelli e i sostenitori di Gabriel Tang, ex capo delle milizie nordiste durante la guerra civile e oggi generale dell'esercito sudanese. Secondo l'Onu, ci sarebbero stati cinquanta morti e un centinaio di feriti, non solo tra i combattenti, ma anche tra i civili.
Nel frattempo, nella regione occidentale del Darfur, dove la guerra civile si protrae da sei anni, la condizione delle popolazioni si fa sempre più spaventosa, mentre persistono i ritardi nel dispiegamento dell'Unamid, la missione congiunta dell'Onu e dell'Unione africana. La missione era prevista come la più grande operazione di peacekeeping mai autorizzata, con una forza di 26.000 uomini. Di fatto, finora ne sono arrivati appena la metà. Soprattutto, mancano i mezzi operativi:  da mesi il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, sollecita inutilmente indispensabili forniture di elicotteri.
Rispetto all'epoca di avvio della missione, tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008, la situazione sul terreno sembra persino essersi aggravata. Nel 2008, secondo i rapporti più recenti, circa 300.000 persone hanno lasciato i propri villaggi per chiedere assistenza nei campi profughi, dove è stato registrato un ulteriore peggioramento della qualità della vita.
Anche alcuni recenti sviluppi negoziali, che avevano fatto sperare nell'avvio di un effettivo processo di pacificazione, non hanno avuto gli effetti auspicati. È il caso dell'intesa raggiunta dieci giorni fa tra il Governo di Khartoum e il Movimento per la giustizia e l'eguaglianza (Jem) - principale gruppo ribelle del Darfur - a Doha, in Qatar, il cui Governo ha condotto una mediazione, su richiesta dell'Unione africana e della Lega araba. Il Jem insorse in armi nel febbraio 2003, insieme con l'Esercito di liberazione sudanese (Sla). Quest'ultimo si è poi scisso in diverse fazioni, la principale delle quali, guidata da Arcua Minna Minnawi, ha firmato da tempo accordi con Khartoum e, in qualche caso, si è anche impegnata in combattimenti al fianco delle forze governative proprio contro il Jem, come per esempio è accaduto di recente nella zona di Nayala.
Anche dell'intesa di Doha - definita peraltro dai mediatori qatarioti solo un accordo di principio, sia pure importante - sul terreno non si è avuto finora riscontro. Combattimenti tra milizie contrapposte e attacchi a campi profughi e a operatori umanitari sono stati segnalati ancora negli ultimi giorni
A complicare la situazione, potrebbe arrivare a giorni un'incriminazione da parte della Corte penale internazionale (Cpi) del presidente sudanese Omar Hassan el Bashir, accusato dal procuratore Luis Moreno Ocampo di crimini di genocidio, di guerra e contro l'umanità nel Darfur. La questione non è solo giuridica, ma politica. L'incriminazione di el Bashir, vede contrari gran parte dei Paesi africani e arabi. L'Unione africana in diverse occasioni ha accusato la Cpi di concentrarsi solo su quanto accade in Africa e di prendere iniziative che ostacolano i mediatori africani nei loro tentativi di negoziare la pace nelle principali crisi del continente.

 

(© L'Osservatore Romano 1 marzo 2009)