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Obama, gli sciiti
e i broker inesperti


di Luca M. Possati

Il "tam tam" diplomatico in Medio Oriente nelle ultime settimane non si è ridotto alle solite foto di gruppo e a riunioni formali. È emerso invece un preciso disegno politico, una strategia comune. Washington e i suoi più stretti alleati sono consapevoli del fatto che la Mezzaluna sciita costituisce ormai una realtà politica e sociale che non può essere esclusa o boicottata. Soltanto aprendo al dialogo con Teheran e Damasco sarà possibile indebolire il potere sunnita nell'area. Questa consapevolezza è stata confermata da segnali importanti:  la missione di due diplomatici statunitensi in Siria, l'invito di Hillary Clinton all'Iran di partecipare alla conferenza per l'Afghanistan, l'annuncio del Governo britannico di aver aperto contatti con Hezbollah.
Ma che cos'è la Mezzaluna sciita? E perché Obama dovrebbe volere intaccare il fronte sunnita? Egitto, Giordania e Arabia Saudita non sono forse partner credibili agli occhi del nuovo inquilino della Casa Bianca?
Per capire la situazione bisogna fare un passo indietro. Durante i trentaquattro giorni della guerra in Libano nel 2006, i muri delle città iraniane erano tappezzati di migliaia di manifesti, ma il soggetto era sempre lo stesso:  Hassan Nasrallah, leader incontrastato di Hezbollah. In un messaggio dell'8 agosto l'ayatollah Khamenei, massima autorità sciita - le cui indicazioni debbono quindi essere seguite da ogni sciita conformemente alla legge islamica - aveva definito "inderogabile" la difesa di Hezbollah da parte della comunità musulmana nella lotta contro "l'entità sionista". Nove giorni più tardi, dopo l'imposizione del cessate il fuoco da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 1710, la Guida suprema si era congratulato con Nasrallah della vittoria, motivo d'orgoglio per i Paesi arabi. L'abbraccio tra i due leader andava al di là del messaggio politico; era il segno di radici comuni.
Il legame tra i gruppi sciiti libanesi e l'Iran è un dato storico e sociale. Se non si tiene conto di esso sfuggono molte dinamiche della scena mediorientale. Tuttavia, Hezbollah non può essere considerato solo un vassallo di Teheran, una "filiale iraniana". La Mezzaluna sciita non è a senso unico. Si tratta piuttosto di un rapporto dialettico:  Hezbollah sottoscrive totalmente la presenza iraniana sul piano ideologico, mentre nel contesto politico libanese opera e definisce le proprie strategie in maniera autonoma. Va colta la peculiarità:  come Hamas, Hezbollah si definisce un movimento islamo-nazionale fortemente radicato nelle strutture sociali locali e proprio per questo attento a calibrare ogni sua azione volta al perseguimento di obiettivi politici che a quella realtà nazionale non siano strettamente connessi. Questo spiega perché in Libano lo scontro politico sia ancora molto aspro:  le Forze del 14 marzo, capeggiate dal sunnita Fouad Siniora, chiedono la regolarizzazione delle milizie del Partito di dio, mentre quest'ultimo si oppone, considerando il proprio braccio armato necessario alla resistenza contro Israele. Non è un caso che dall'accordo di Doha - col quale si mise fine ai combattimenti tra sunniti e sciiti nel maggio 2008 - rimase fuori proprio la questione delle armi dei miliziani di Nasrallah. L'intesa, in quel caso, fu mediata dal Qatar, uno storico alleato di Teheran.
Al centro della Mezzaluna sciita si colloca poi un altro tassello decisivo:  la Siria, dominata dal potere della minoranza sciita alawita rappresentata dalla dinastia Assad. Fin dai tempi del conflitto tra Iran e Iraq, Damasco è l'unico Stato arabo ad avere rapporti di stretta collaborazione con Teheran, sia sul piano politico che su quello economico. Durante la guerra in Libano nel 2006, il Governo di Bachar Al Assad ha rafforzato i propri rapporti con Hezbollah e con Hamas e cercato di uscire dall'isolamento internazionale creatosi in seguito all'assassinio dell'ex premier libanese Rafik Hariri nel febbraio 2005. La partecipazione al vertice di Parigi per il varo dell'Unione euromediterranea, la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Beirut e l'avvio di negoziati indiretti con Israele - poi interrotti a causa dell'operazione "Piombo Fuso" - sono stati tutti segnali eloquenti. Il regime siriano punta a riconquistare un ruolo internazionale di primo piano in modo da mantenere un rapporto con Teheran da pari a pari.
Se negli ultimi otto anni Washington ha spesso identificato la Mezzaluna sciita con il cosiddetto "Asse del male", oggi il cambiamento di rotta pare evidente. Una scelta dettata anche dagli scarsi risultati ottenuti dalla diplomazia araba - capeggiata da Egitto e Turchia - nei giorni dell'operazione militare israeliana su Gaza. Il dialogo con la Repubblica islamica è il mezzo più veloce e indolore per trovare una stabilità in Iraq e risolvere il conflitto in Afghanistan. Resta aperta però la questione del nucleare iraniano. E proprio qui si prospetta un aspro scontro coi sunniti:  è infatti evidente che Washington, da una parte, non potrà non fare ampie concessioni alle ambizioni di Teheran in cambio di assistenza, dall'altra, dovrà fronteggiare l'opposizione dell'Arabia Saudita, che non vede di buon occhio il predominio degli ayatollah nel Golfo. In un recente vertice della Lega araba il ministro degli Esteri di Riad, il principe Saud Al Faisal, ha chiesto di definire una strategia comune per contenere le mire di Mahmoud Ahmadinejad - quel ch'egli ha definito la "sfida iraniana".
Barack Obama sta cercando di riconquistare il ruolo classico degli Stati Uniti in Medio Oriente, quello di un broker permanente, preoccupato anzitutto di evitare che un'altra potenza egemonizzi l'area. E come nella più classica operazione borsistica, dove quanto meno si raggiungono risultati definitivi e stabili, tanto più si gode di una rendita assicurata, così Washington punta a lasciare sussistere conflitti locali - naturalmente evitandone la degenerazione - in modo da impedire un'eccessiva concentrazione del potere. Impossibile dire se riuscirà. A Wall Street ormai l'hanno imparato:  anche i broker più esperti possono sbagliare.

 

(© L'Osservatore Romano 12 marzo 2009)