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Di fronte all'Ultima cena

Il Dio
che difende le vittime


di Lucetta Scaraffia

Quando pensiamo all'Ultima cena, l'immagine che ci viene in mente è quella, celeberrima, del dipinto di Leonardo conservato a Milano nel convento domenicano delle Grazie. Anche se numerosissime sono le raffigurazioni di quell'evento, l'affresco leonardesco è così perfetto da surclassarle tutte. Per questo, quando cerchiamo di immaginare cosa sia successo realmente quella notte, il nostro pensiero corre subito a quel capolavoro. Ecco perché qualche giorno fa tante persone sono accorse nella chiesa di Santa Maria delle Grazie - dopo avere avuto l'occasione straordinaria di vedere per un quarto d'ora, divise a piccoli gruppi, il dipinto originale anche nelle ore serali - per ascoltare la bellissima lectio magistralis di Timothy Verdon sull'opera per iniziativa dell'associazione Imago Veritatis, che promuove "l'arte come esperienza spirituale".
È stato un modo particolarmente appropriato per iniziare le meditazioni della Settimana santa, culmine del percorso quaresimale. All'arte vengono così riconosciuti il suo significato e la sua funzione originari:  costituire un mezzo per vivere con intensità un'esperienza spirituale - in questo caso le parole dei Vangeli - quasi come testimoni reali dell'evento. Verdon ha spiegato benissimo perché, arrivati di fronte all'affresco, riconosciamo immediatamente chi è Gesù, senza bisogno di aureole, e soprattutto perché, davanti a un'immagine già vista mille volte, ne siamo così colpiti:  è per la forza della presenza di Cristo, che si impone al centro del gruppo, a cui sono volti tutti gli sguardi e i gesti dei presenti. L'abilità dell'artista e la sua sapienza prospettica sono in perfetta sintonia con il messaggio spirituale che l'opera vuole dare.
Gesù, solo e malinconico, immerso in se stesso, ha appena stupito i discepoli con la profezia del tradimento - "uno di voi mi tradirà" - rivelando così quanto sia poco affidabile l'amore umano, al quale silenziosamente contrappone il dono totale di sé, rappresentato dalla sua prossima fine e dall'Eucaristia. Vedendo il dipinto, nessuno ha dubbi che Cristo sia lui, assorto in una dolorosa consapevolezza, mentre i discepoli si agitano, senza capire.
Tutti noi presenti abbiamo compreso così il fine dell'arte sacra, quello che i grandi artisti come Leonardo interpretano alla perfezione:  fare emergere il senso degli eventi della vita di Gesù, così carichi di significato e di mistero. Guardando l'Ultima cena siamo posti dinnanzi a Gesù che soffre, che capisce, che sa. E noi ci sentiamo ottusi e confusi come i discepoli che si ammassano preoccupati ai suoi lati. Così possiamo rivivere la loro angoscia per la debolezza che sanno di avere, cioè per l'insufficienza umana davanti all'amore gratuito e totale di Cristo. Si tratta di un'immagine "parlante" che ripete, illuminandole, le parole dei Vangeli.
Per noi che viviamo nella società contemporanea, conoscere attraverso l'immagine è divenuta un'esigenza primaria, alla quale siamo talmente abituati da non concepire più un mondo solo di parole. Conosciamo infatti i volti dei nostri antenati grazie alle foto di famiglia e quelli degli uomini importanti che ci hanno preceduto grazie alle foto e ai film storici. Per questo è così importante, oggi, poter ricorrere all'immenso patrimonio dell'arte sacra per capire meglio - attraverso la capacità di evocazione creativa degli artisti - chi è stato Gesù.
Riconoscere il volto di Cristo in questo momento, al centro degli avvenimenti che segnano la sua passione, in un'opera che è capace di trasmettere il senso profondo del suo donarsi, aiuta a comprendere il significato del sacrificio pasquale. La consapevolezza di quello che accade e la scelta di accettare il dolore e la morte, che si leggono sul volto del Gesù leonardesco, fanno capire al primo sguardo che egli è differente da tutte le altre vittime innocenti che ci sono state e ci saranno dopo di lui.
In questa libera accettazione del sacrificio, a cui corrisponde da parte degli evangelisti la difesa della sua totale innocenza, sta infatti - come ha scritto René Girard - la differenza fra la tradizione cristiana e i miti arcaici. In questi la situazione è radicalmente diversa:  la vittima non doveva essere percepita come tale, ma considerata colpevole di qualche male, per risolvere come capro espiatorio il problema della violenza interna alla comunità. I Vangeli, invece, contengono per la prima volta la storia di una vittima uccisa e perseguitata in cui l'unico punto di vista valido è quello della vittima stessa:  una vittima non solo del tutto innocente, ma che aveva chiaramente preannunciato il proprio destino e i motivi per cui vi sarebbe andata incontro. Gesù si rivela così un nuovo Dio d'amore, il Dio che difende le vittime, e in questo modo sovverte dall'interno le strutture violente su cui si basa la vita degli esseri umani.

 

(© L'Osservatore Romano 9 aprile 2009)