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Il discorso di Netanyahu all'università di Bar Ilan

Il gioco delle parti


di Luca M. Possati

Nell'atteso discorso all'università di Bar Ilan, a Tel Aviv, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha lanciato un chiaro messaggio alla comunità internazionale:  il suo Governo è pronto a riprendere la via del dialogo, ma solo a certe condizioni. Condizioni che non convincono l'Autorità palestinese - i cui rappresentanti hanno già denunciato un "sabotaggio del processo di pace" - e fanno storcere il naso a Washington e all'Unione europea. "Non c'è un solo israeliano che vuole la guerra", ha assicurato Netanyahu. Ma le domande senza risposta restano ancora troppe e il lavoro della diplomazia  si  preannuncia  molto  complesso.
A differenza di quanto annunciato nel primo incontro alla Casa Bianca con il presidente Obama - allora il leader del Likud aveva dichiarato di "non prendere in considerazione lo spazio politico e territoriale per la nascita di uno Stato palestinese, ma al massimo una forma di autogoverno" - Netanyahu si è detto pronto a sostenere la costituzione di una futura Palestina autonoma, ponendo tuttavia due vincoli:  i palestinesi dovranno riconoscere Israele come Stato nazionale del popolo ebraico e il loro futuro Stato dovrà essere demilitarizzato, sotto supervisione internazionale e senza il controllo dello spazio aereo. "Se riceveremo la garanzia della demilitarizzazione e del rispetto dei termini di sicurezza - ha detto il primo ministro - siamo pronti a un autentico accordo di pace". Affermazioni definite dalla Casa Bianca "un grosso passo in avanti" - è infatti la prima volta che Netanyahu accetta di parlare esplicitamente di uno Stato palestinese - ma che hanno suscitato lo scetticismo della Lega araba, secondo la quale non c'è alcuna ragione di chiedere una demilitarizzazione perché comunque la potenza di Israele resta schiacciante.
Proprio ai leader arabi il primo ministro israeliano ha rivolto un appello a riprendere subito e senza precondizioni i negoziati entrati in stallo dalla fine del 2008 a causa, prima, della crisi politica israeliana culminata con le dimissioni di Olmert, poi dell'operazione Piombo Fuso a Gaza. Su due punti fondamentali, però, Netanyahu ha escluso qualsiasi discussione. Il problema dei profughi palestinesi - circa quattro milioni e trecentomila persone, secondo le stime ufficiali dell'Onu, la maggioranza dei quali in Giordania, Libano e Siria - che dovrà essere risolto al di fuori dei confini israeliani poiché "il loro ritorno va contro il principio di Israele in quanto Stato ebraico". E lo status di Gerusalemme, che "resterà capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico". Israele inoltre si attende che il nuovo Governo dell'Autorità palestinese s'impegni a lottare contro l'estremismo:  "Non siamo disposti a sederci a un tavolo con terroristi che vogliono distruggerci". In linea con ciò, Netanyahu è tornato a denunciare con forza il pericolo rappresentato dal nucleare iraniano, "la peggiore minaccia per Israele, per il Medio Oriente e per il mondo intero". Nei prossimi viaggi - ha affermato il premier - "mi adopererò per cercare di costituire una coalizione internazionale per fermare Teheran", dando per scontata l'esistenza di un "arsenale atomico dell'Iran".
Nel discorso all'università di Bar Ilan c'è stato solo un breve riferimento al problema più discusso negli incontri con l'Amministrazione Obama, quello degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Sul punto il premier israeliano si è espresso in modo assai vago:  "La questione territoriale sarà affrontata negli accordi definitivi; fino ad allora non aggiungeremo nuovi insediamenti". Senza fare alcun cenno alla controversa barriera di separazione - giudicata contraria alle leggi internazionali dalle Nazioni Unite (risoluzione del 22 ottobre 2003) e dalla Corte internazionale dell'Aja - e ai continui scontri con la popolazione palestinese in Cisgiordania, spesso innescati proprio dalle provocazioni dei coloni, Netanyahu si è limitato a sottolineare che all'interno degli insediamenti già esistenti "la vita continuerà regolarmente". I coloni sono "fratelli e sorelle con i quali è necessario raggiungere una concordia nazionale". Questo significa che il Governo israeliano s'impegna a non edificare nuovi insediamenti e a rimuovere gli avamposti illegali, anche se spesso questi vengono ricostruiti dai coloni poco dopo il loro smantellamento da parte dei militari. Non sarà ostacolata invece la "crescita naturale" degli insediamenti già esistenti. Washington, al contrario, chiede l'immediato congelamento di ogni attività edilizia nei termini sanciti dalla Road Map del Quartetto.
Più degli auspici di Obama, sulle parole di Netanyahu a proposito degli insediamenti sembrano aver pesato le pressioni interne all'Esecutivo israeliano. La scorsa settimana, durante un incontro con l'inviato speciale della Casa Bianca, George Mitchell, le delegazioni degli Stati Uniti e di Israele hanno cercato di distinguere accuratamente tra i nuovi edifici costruiti da zero, quelli vecchi estesi con aggiunte e quelli costruiti dentro un perimetro già definito. La linea più volte espressa da Eli Yishai, ministro dell'Interno e leader dello Shas, il partito ultraortodosso ashkenazita, è quella di "proteggere la crescita naturale demografica in Giudea e Samaria, senza però andare allo scontro con gli Stati Uniti". Il vero problema - secondo accreditate fonti di stampa - è che una mappa precisa dello Stato attuale degli insediamenti in Cisgiordania ancora non esiste.
Ciò nonostante, non sarà la questione degli insediamenti in espansione demografica a incrinare le relazioni tra Washington e Israele. Osservatori anonimi citati dalla stampa ritengono che sia in atto una "drammatizzazione ad arte":  anche se Netanyahu si è dichiarato d'accordo in linea di principio con la visione obamiana dei due Stati, egli deve comunque ostentare un certo attrito, una distanza. Il leader del Likud sta giocando una partita a poker, ma su tavoli separati. Deve aiutare l'inquilino della Casa Bianca a rinsaldare il credito finora ottenuto presso il mondo arabo e mantenere vivo il rapporto con le frange più oltranziste del Governo e con il proprio elettorato.

 

(L'Osservatore Romano 15-16 giugno 2009)