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Ricordo di padre Pio

Il frate
e il sindaco socialista


di Giuseppe Tamburrano
Presidente della Fondazione Nenni

La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo. Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate. Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli. Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava. Mi voleva bene:  chissà perché. Forse perché sentiva in me il laico cristiano. È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l'ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei "signori" io, caporione della squadra dei figli dei "cafoni", andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio - ricordo sant'Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore:  io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese - o a esercitarmi per le mie esibizioni canore:  ricordo l'Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all'organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l'atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre. Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori. Ma la passione politica lo infiammò più dell'agone forense. Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell'ottobre 1920. Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari - tante donne! - che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari. Il destino di mio padre fu segnato:  l'emarginazione sociale e civile e la miseria dell'esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa. E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l'ago da ricamo lavorare per le sue "amiche" dell'establishment fascista. E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta:  "Giusè, va' a trovare zia Annina", si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla:  subiva, viveva triste, assente. Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista. "Tu lo vedi ora spento. Avresti dovuto vederlo qualche anno fa:  sembrava un leone con l'abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari" mi diceva mia madre.
Ebbene quest'uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza. E non gli chiese mai:  perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.

 

(L'Osservatore Romano 21 giugno 2009)