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Istanbul capitale europea della cultura

La città dell'incontro
inevitabile


da Istanbul Franco La Cecla
Università di Losanna

Com'è piena di vita questa città affacciata sul mare e sul Bosforo. Come fa pensare alle grandi città latinoamericane o alle conurbazioni asiatiche. Istanbul ha oggi più di venti milioni di abitanti, in un Paese che ne conta ottanta di cui il 70 per cento ha meno di 35 anni. Un Paese giovane in grande cambiamento e soprattutto complicato, dove agli abitanti di un tempo - Istanbul ne aveva solo trecentomila negli anni Cinquanta - si è sostituito l'anatolico, proveniente dall'immenso retroterra turco, che qui ha portato ciò che i giornali chiamano l'arabesque:  un mondo rurale e islamico, fatto di velo sul capo delle donne, di kebab e lamaciun, la pizza turca tradizionale.
Il quartiere di Beyloglu - quello che si chiamava Pera a Costantinopoli e prima ancora Galata - oggi è il luogo del passeggio moderno e cosmopolita, con negozi di catene internazionali, pub, discoteche, bistrot, ristoranti, in un mondo di vicoli e sokak ancora popolarissimi, con cibi di strada, venditori ambulanti, case pericolanti. Beyloglu è un po' il simbolo di una cerniera storica. Istanbul è in Europa con un braccio e però ha un gran corpo che non è europeo senza essere in realtà nemmeno asiatico.
Dal 16 gennaio prossimo la città sarà una delle capitali della cultura europea. Ospita mostre interessanti, è diventata un centro di riferimento per arte e biennali internazionali. Con una comunità straniera ragguardevole, interessata, che parla o mastica il turco e che comunque sta qui perché questa è una porta, un nodo fondamentale nel futuro d'Europa. Ci sono persone che vivono qui con un senso di "presenza" necessaria, le quali sanno che in questo crocevia molte questioni di confronto possono venire alla luce.
Non è facile. Ne parlo con un brillante ricercatore francese che ha al suo attivo un bel po' di libri sui cristiani d'Oriente di cui uno recente - Periple en Turquie chrétienne (Paris, Presses de La Renaissance, 2009, pagine 276, euro 18, 50) - fa il punto di un viaggiatore attento sulla situazione delle minoranze cristiane in Turchia:  armeni, ortodossi, siriani aramaici, cattolici. Sébastien de Courtois mi parla al caffè di Ara Güler, il grande fotografo di questa città, le cui foto campeggiano magnifiche in bianco e nero sulle pareti del locale. Sébastien dice che la situazione è complicata, e che però i fatti di sangue che hanno caratterizzato gli ultimi anni, con l'uccisione del prete cattolico Andrea Santoro a Trebzond (l'antica Trebisonda) e poi del giornalista di origine armena Hrant Dink a Istanbul hanno provocato una forte reazione locale e una prima presa di coscienza.
I giovani vogliono sapere un po' di più della storia della Turchia e non si accontentano delle versioni ufficiali, monotematiche; vogliono conoscere questi altri turchi, armeni, greci, cristiani. Dink scriveva articoli magnifici e accorati sull'importanza di una società tollerante, multietnica e multireligiosa. Il recente dibattito sull'interdizione dei minareti in Svizzera ha provocato qui un articolo su uno dei giornali più letti in cui ci si domandava se fosse giusto prendersela con gli svizzeri quando agli stranieri in Turchia è limitato l'acquisto di proprietà e talvolta le chiese cristiane vengono espropriate.
Un Paese complicato, ma in trasformazione, dove gli haleviti - la componente iperlaica dell'islam turco (che non va in moschea, non osserva il ramadan) - sono circa il 30 per cento della popolazione e hanno un grosso peso nel Governo. Sébastien dice che in Turchia ci sono ancora le tracce del passaggio tra un culto e l'altro, indizi di una contaminazione vera della spiritualità:  come ad esempio il rituale aramaico della genuflessione che pare abbia influito sulla genuflessione islamica.
Ci raggiunge un giovane vivace e attentissimo a quello che gli accade intorno, trentacinquenne, frate domenicano che vive qui la sua missione ed è uno dei maggiori esperti europei di misticismo islamico:  ha scritto una decina di saggi fondamentali su Rumi, il grande mistico fondatore dei dervisci, sì proprio quelli che girano, ballano per lodare e fondersi in Allah e nella sua grandezza inafferrabile. Fabio Alberto Ambrosio mi ha già spiegato altre volte, dall'alto di una terrazza di una casa genovese a Galata (Beyloglu) che ha senso parlare di "presenza":  stare qui significa semplicemente stare qui, attestarsi per consentirsi di capire ed essere disponibili al confronto, alla curiosità reciproca.
Con lui cerchiamo di affrontare un'antropologia quotidiana dei gesti, degli sguardi. È lui che mi racconta la curiosità dell'islam turco - orgoglioso, nazionale e abbastanza antiarabo - per la pratica della confessione. Dice che nell'islam il male fatto da altri o quello commesso non viene detto, perché dirlo significa pericolosamente riprodurlo. Questo però implica una grossa componente di ritenzione, di difficoltà a parlare di sé, nella vita quotidiana. Per noi occidentali, abituati al flusso di coscienza, al guardarci fin troppo spesso dentro, all'esame di coscienza prestato a uno psicanalista, tutto ciò risulta strano. E ai turchi suscita una gran curiosità.
Crediamo con il domenicano che c'è una dimensione quotidiana in cui il confronto può essere fruttuoso, anche di fronte ai rovesci della vita. Istanbul è un grande balcone affacciato su se stessa:  queste magnifiche colline arrampicate sulle acque e che si riflettono le une nelle altre, in un intreccio tra Asia ed Europa che è un po' pretestuoso, come tutti i giochi di specchi. Queste colline sono in realtà un affacciarsi sul destino dell'Europa, sul senso dell'apertura inevitabile tra culture, sul senso soprattutto dell'essere giovani oggi, sulla caduta fortunata di frontiere, sulle occasioni generose di strade e spazi pubblici dove si incrociano minigonne e veli, gendarmi e studenti Erasmus, spagnoli e italiani, e ovviamente anatolici con in testa le gerle del pane di sesamo che qui scandisce le mattine. Forse occorre non dimenticare che i magi giunsero a Betlemme da Oriente portando, secondo un'antica tradizione (rinverdita da Michel Tournier), oltre che oro, incenso e mirra, anche i dolci lukkum, che nelle pasticcerie di Istanbul si impilano in grandi chiassosi mucchi colorati.