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Perché sono necessarie delle regole per la rete

Il business
della libertà


di Luca M. Possati

Il ragazzo è picchiato e deriso dai compagni di classe:  piccole schermaglie, qualche spintone, insulti. Cronico bullismo scolastico, si dirà, se non fosse per due particolari niente affatto marginali. Primo:  quello preso di mira è un disabile. Secondo:  un altro ragazzo sta riprendendo la scena con il telefonino. Il video, girato a Torino nel maggio 2006, è caricato su Youtube e diventa un "successo" (5.500 contatti) fino a quando non viene rimosso. Tre anni più tardi il Tribunale di Milano decide di condannare tre manager europei di Google, la società proprietaria di Youtube, per la pubblicazione del contenuto.
In attesa di conoscerne le motivazioni, che verranno rese note tra qualche mese, nella sentenza di Milano c'è già una novità sostanziale:  per la prima volta in un Paese occidentale è stato stabilito che un motore di ricerca su internet e i suoi dirigenti possono essere ritenuti legalmente responsabili per il materiale messo in rete - sul motore stesso o su siti collegati - da parte di terzi, cioè di utenti che hanno libero accesso alla struttura.
La decisione ha acceso il dibattito pubblico e scatenato le reazioni del mondo politico internazionale. Alcuni commentatori hanno attaccato la sentenza in quanto lesiva della libertà del web, altri hanno invece applaudito la decisione sottolineando la necessità di fissare paletti normativi per un settore così nuovo. Tra i due estremi si colloca la questione decisiva:  come preservare quella creatività e quella libertà di azione che caratterizzano la rete, rendendola tanto affascinante e densa di opportunità d'ogni tipo, e assicurare al contempo un controllo sui contenuti? La sentenza di Milano va nella giusta direzione:  servono regole; i motori di ricerca e i provider hanno responsabilità penali. Ma il problema è quali regole introdurre per bilanciare diritti e doveri, e chi debba stabilirle e farle rispettare. Questioni non facili, ma forse è il momento di aprire una discussione globale e di creare nuovi strumenti, come un Internet Bill of Rights. Fenomeni come quello del video incriminato non sono isolati:  giorni fa su Facebook è stato chiuso un gruppo contro i disabili.
Come nel caso dello scontro con la Cina o di quello con la Thailandia, Google è stato nuovamente difeso con forza dall'Amministrazione statunitense. "Siamo negativamente colpiti dalla decisione", ha dichiarato in una nota l'ambasciatore americano in Italia, David Thorne. "Il segretario di Stato, Hillary Clinton, lo scorso 21 gennaio - spiega la nota - ha affermato con chiarezza che un internet libero è un diritto umano inalienabile che va tutelato nelle società libere". Il comunicato poi rincara la dose, mettendo in risalto che "è necessario prestare grande attenzione agli abusi; tuttavia, eventuale materiale offensivo non deve diventare una scusa per violare questo diritto fondamentale". I vertici di Mountain View hanno definito la sentenza ridicola affermando che il video era stato rimosso quasi subito dopo la segnalazione dell'associazione Vividown e che si sarebbe dovuto condannare gli autori del filmato piuttosto che i dirigenti del provider. "Ci troviamo di fronte a un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet". Anche "Reporter sans frontières" ha parlato di limiti inaccettabili alla libertà d'espressione.
Resta il fatto - sottolineano gli esperti - che nella maggior parte dei casi risalire agli autori dei contenuti e a coloro che li hanno caricati sulla piattaforma di Youtube è un'impresa ardua se non impossibile. D'altronde - affermano altri - pensare che i manager di un provider debbano controllare tutti i materiali messi in linea è una proposta altrettanto folle, contando che il popolo della rete si aggira sui due-tre miliardi di utenti al giorno. Google da solo conta una media  di  155  milioni  di  visitatori  al mese.
Il problema alla radice è che la rete è un affare per molti. Youtube dà a tutti la possibilità di guadagnare grazie alla pubblicità:  i video più visti - come quello della sentenza di Milano, come altri, magari pornografici, razzisti o violenti - offrono grandi opportunità di introiti da dividere tra gli autori e il provider. È un algoritmo a decidere i filmati che possono essere monetizzati. Tuttavia, il sospetto è lecito, con ogni probabilità sarà ancora una volta il colosso californiano a guadagnare di più da questa operazione, a sfruttare il richiamo alla libertà di espressione per far lievitare gli introiti. Costruire un sistema di controllo è costoso:  pagando gli addetti alle revisioni anche solo cinque dollari l'ora, il costo annuo del controllo preventivo dei filmati supererebbe gli ottanta milioni di dollari. Troppo, per i vertici di Mountain View. Troppo, anche se Google guadagna dai dieci ai venti miliardi di dollari l'anno e Youtube vende pubblicità a 178.000 dollari al giorno, quasi cinque milioni e mezzo di dollari al mese. MySpace - dicono le stesse fonti - guadagnerà fino a 900 milioni di dollari l'anno dopo aver firmato un accordo con Google. Cifre da capogiro. È il business della libertà. Che tuttavia non può essere senza freni.