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Le legislative in Iraq

Un voto contro le interferenze


di Gabriele Nicolò

Vuole essere la prova di un'indipendenza e di una sovranità più compiute il voto di domenica 7 marzo, quando l'Iraq sarà chiamato alle urne per il rinnovo del Parlamento. Il premier Nouri Al Maliki ha dichiarato che il Paese deciderà il proprio futuro "senza permettere a forze esterne, incluso l'Iran" di interferire. E anche la responsabilità della sicurezza sarà tutta irachena. Oltre seicentomila tra agenti e membri della sicurezza proteggeranno i 64.000 seggi sparsi nel territorio e i circa diciannove milioni di cittadini che si recheranno alle urne:  dovranno scegliere tra i 6.200 candidati i 325 che siederanno nel nuovo Parlamento. Le forze americane, ora poco meno di centomila unità in tutto il Paese, resteranno nelle loro basi:  interverranno solo se il loro aiuto sarà richiesto direttamente dalle autorità irachene.
Un ventaglio di sfide caratterizza le legislative. Al Maliki - dopo che il Papa all'Angelus di domenica 28 febbraio ha chiesto per l'Iraq un futuro di riconciliazione e sicurezza per tutte le minoranze religiose - ha ribadito l'impegno a fare tutto il possibile per proteggere i cristiani, bersaglio di sistematiche violenze. E, in un'intervista  a  "La  Stampa",  ha detto di voler "lavorare con Benedetto XVI per impedire che l'Oriente si svuoti di cristiani, o l'Occidente di musulmani".
Dal versante religioso a quello politico:  il voto sarà chiamato a ricalibrare i fragili equilibri interni. Le fasi finali della campagna elettorale sono state segnate dall'esclusione di oltre cinquecento candidati ex appartenenti al partito Baath di Saddam Hussein. Un segnale chiaro di rottura con il passato. Ma il presente non è semplice. Gli iracheni secondo la nuova legge elettorale approvata lo scorso novembre - non senza controversie - dovranno rinnovare il Parlamento, che a sua volta nominerà il presidente e il primo ministro. Le novità più contestate riguardano la garanzia di rappresentanza istituzionale di tutti i gruppi etnico-religiosi e il numero di seggi riservati agli elettori iracheni all'estero.
Domenica i tre gruppi principali - sciiti, sunniti e curdi - si contenderanno le due più alte cariche dello Stato che, al momento, per garantire l'equilibrio fra le parti, hanno ciascuna due vice. Attualmente il presidente Talabani, curdo, ha due vice, uno sunnita e uno sciita; il premier Al Maliki, sciita, ha due "spalle", una sunnita, l'altra curda. La nuova legge elettorale prevede che il presidente non avrà più numeri due, mentre il primo ministro ne avrà uno solo. Ora si teme che in un Paese segnato da divisioni etniche, questa configurazione dei poteri possa generare discriminazioni contro un gruppo o un altro.
Forti obiezioni, al riguardo, sono state sollevate dai sunniti, il 42 per cento della popolazione. Essi contestano anche l'esigua quota di seggi riservati per gli elettori all'estero:  a loro disposizione ne restano otto, anziché i quarantacinque delle precedenti elezioni. "Otto seggi è un numero insufficiente perché fuori dal Paese vivono due milioni di rifugiati politici, in gran parte sunniti" ha dichiarato il vice presidente Tariq Al Hashimi.
Il voto è seguito con particolare interesse dagli Stati Uniti. L'Amministrazione Obama spera che l'appuntamento elettorale segni un passo in avanti lungo il cammino di stabilizzazione del Paese, così da poter concentrare l'attenzione sull'Afghanistan. Entro pochi mesi il presidente Obama vorrebbe riportare a casa decine di migliaia di soldati (dal giugno scorso i militari statunitensi sono quasi spariti dalle zone urbane). Ma ci si chiede se i novecentomila uomini delle nuove forze di sicurezza irachene (di cui 600.000 poliziotti) saranno in grado di vincere da soli la sfida della sicurezza. I terroristi, infatti, non danno tregua:  lo confermano gli attentati di questi giorni. E minacciano di scatenare nuove violenze qualora, all'orizzonte, grazie anche al voto di domenica, dovesse prospettarsi una maggiore stabilità politica e sociale. L'Iraq, dunque, si potrebbe trovare diviso tra il rifiuto di interferenze e la richiesta di aiuto internazionale.