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Un'omelia dell'arcivescovo di Westminster

Per rispettare la vita
e accettare la morte


di Ferdinando Cancelli

In un clima segnato da sempre più frequenti tentativi di far passare nell'opinione pubblica inglese il concetto di mercy killing (letteralmente "uccisione per pietà", in pratica l'eutanasia), la legittimazione del suicidio assistito mediante leggi ad hoc si profila anche oltre la Manica come un'evidente minaccia alla vita e non solo a quella giunta al termine per una malattia in fase avanzata. La Chiesa che è in Inghilterra ha recentemente fornito in proposito alcune preziose indicazioni che, suggerendo in modo molto pratico come comportarsi di fronte a un malato terminale, indicano chiaramente come eutanasia e suicidio assistito rappresentino una facile ed economica via di fuga di fronte alla sofferenza e alla morte.
In particolare il 13 febbraio scorso monsignor Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e presidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, si è soffermato su questi temi nell'omelia pronunciata nella cattedrale londinese in occasione della messa in onore di Nostra Signora di Lourdes e lo ha fatto partendo dal concetto di pellegrinaggio vissuto come occasione di riscoperta del vero senso della vita di cui i malati, anche attraverso le cure a essi prestate, fanno quotidianamente dono a chi di loro si occupa con spirito di servizio.
"Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò" (Isaia, 66, 13):  questa l'immagine forte di "cura e di comfort" toccata per prima dal presule e che subito porta nel "cuore delle cure che cerchiamo di darci gli uni gli altri, specialmente a coloro che sono oppressi dalla malattia e dall'angoscia". Citando direttamente il nuovo statuto del servizio sanitario nazionale inglese pubblicato nel gennaio 2009, monsignor Nichols ha sottolineato come tra i compiti che il sistema stesso si è dato vi sia da un lato quello di "cercare le cose che, per quanto piccole, si possono fare per dare comfort e alleviare la sofferenza" e dall'altro di "trovare il tempo" per stare accanto ai sofferenti. Se questo non succede - ha proseguito l'arcivescovo - "non è semplicemente un problema di atteggiamenti di singoli individui" ma spesso di "cultura dell'istituzione" nella quale si presta servizio, "di pressioni e di consegne che possono indebolire e compromettere l'abilità dello staff di fornire cure adeguate".
La dignità dell'uomo emerge con chiarezza se si guarda alla verità dell'uomo che viene da Dio e la "qualità della vita in relazione a Dio non può mai essere ridotta a ciò che esternamente dell'uomo appare":  in un pellegrinaggio a Lourdes, "dove è molto più trasparente il velo tra cielo e terra" è "più facile - si sottolinea ancora nell'omelia - vedere i malati come nostri leader spirituali, come campioni di fede e di abbandono fiducioso nel Signore", e la "qualità delle cure che noi forniamo dipende proprio dagli occhi con i quali ci guardiamo reciprocamente".
Il secondo tema sviluppato dall'arcivescovo è tratto invece direttamente dal new wine (il "vino nuovo") di Cana, anticipazione di quello che attende i credenti nel regno del Padre (cfr. Matteo, 26, 29):  in questa prospettiva fear cannot be our guide ("la paura non può essere la nostra guida"). L'arcivescovo Nichols sottolinea, citando la bozza di documento sull'assistenza spirituale ai morenti pubblicato recentemente dalla Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, come ci siano "due cose da tenere in mente nelle cure di fine vita:  rispettare la vita e accettare la morte" (respecting life and accepting death). In modo molto pratico se rispettare la vita significa che "la morte non dovrebbe mai essere il fine delle nostre azioni o delle nostre omissioni", accettare la morte implica di "prepararsi adeguatamente" lungo l'intera esistenza e - continua monsignor Nichols - "non negare la realtà della situazione o fuggire dall'inevitabile cercando ogni trattamento possibile".
In altre parole, se eutanasia e suicidio assistito sono un'evidente mancanza di rispetto per la vita umana, l'applicazione di trattamenti sproporzionati a un paziente, specie in fin di vita, può rappresentare una mancata accettazione della morte. "C'è una violenza nascosta - conclude l'arcivescovo - in molti dei nostri sistemi, anche quelli che si occupano di curare, poiché il loro modo di agire è basato sul riduzionismo. Se riduciamo la morte a un evento clinico e ne gestiamo le fasi attraverso una serie di procedure standard non la affrontiamo correttamente né dal punto di vista clinico né dal punto di vista umano".
L'arcivescovo di Westminster ci dice perciò che la violenza che c'è dietro la mentalità eutanasica - o dietro il tentativo di cercare disperatamente di controllare gli eventi fino a quando l'unica falsa libertà che rimarrà sarà quella di togliersi la vita - è figlia della paura:  paura di sofferenze difficili da alleviare o di perdere la propria autonomia, paura di stare realmente davanti a chi soffre, paura di dover spendere troppo per chi, agli occhi dei "sani", non merita più di sottrarre risorse al pur vacuo e transitorio benessere. La proposta è quella di fidarci di chi più volte e oggi ancora ci ripete "non abbiate paura" e ci affida il compito di non fuggire di fronte alla sofferenza imboccando pericolose scorciatoie.