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La crisi nel Vicino Oriente

Obama, Ankara
e i timori di Israele


di Luca M. Possati

Il blitz dell'esercito israeliano contro la "Freedom Flotilla" al largo di Gaza rischia di aprire una crisi internazionale dalle conseguenze ancora difficili da calcolare. Israele ha reagito al biasimo del Consiglio di sicurezza dell'Onu definendolo "ipocrita e precipitoso". Dure critiche all'operazione di Tsahal sono giunte anche dalla Nato e da diversi Paesi europei. In crisi le relazioni tra Turchia e Israele, con Erdogan che minaccia di rompere un'alleanza di ferro in piedi da oltre dieci anni. La Casa Bianca sceglie la strada della prudenza ed evita accuratamente condanne esplicite. Scelta oculata, visti gli interessi strategici in gioco.
Obama sa bene di trovarsi di fronte a un'alternativa piena d'insidie. La tenuta dell'asse israelo-turco, uno dei punti fermi dello scacchiere internazionale dal 1994, riveste un'importanza vitale per gli Stati Uniti e la Nato. Per questo Washington non può voltare le spalle ad Ankara, un partner strategico essenziale per controllare gli equilibri nel Vicino Oriente e nel Caucaso, e coinvolto nelle missioni in Afghanistan e in Libano. Necessità resa ancor più evidente dai recenti attriti sul dossier nucleare iraniano:  l'intesa raggiunta dalla Turchia con Teheran, insieme al Brasile, per il trasferimento di uranio in cambio di combustibile atomico non è stata ben vista dalla diplomazia statunitense che infatti l'ha definita inaccettabile e chiesto al Consiglio di sicurezza di procedere con le sanzioni. L'ascesa del partito islamico e il ridimensionamento del ruolo dei generali - dopo la scoperta del tentativo di colpo di Stato nel febbraio scorso - hanno impresso alla politica estera turca un cambio di marcia nel segno di una maggiore apertura al mondo islamico orientale. Una direzione riassunta nello slogan del ministro degli Esteri Davetoglu:  "Zero problemi con i vicini". E di questo riassetto - dicono gli analisti - una parte delle responsabilità è anche europea a causa dei ritardi nel processo d'inclusione di Ankara nell'Unione.
Erdogan ha usato toni molto duri:  il blitz sulla "Freedom Flotilla" ha provocato "una profonda ferita nella pace mondiale" e le giustificazioni di Israele sono inaccettabili. "Nulla sarà più come prima - ha detto il premier - nelle relazioni tra i due Paesi". Nessuno "deve mettere alla prova la pazienza della Turchia:  è tempo per la comunità internazionale di dire basta e l'Onu non deve fermarsi a una risoluzione contro Israele, deve anche sostenerla". In un colloquio con Erdogan il presidente statunitense ha promesso "un'inchiesta credibile, imparziale e trasparente sulla tragedia".
Ma Obama non può neanche voltare le spalle a Israele. È stata inevitabile per Netanyahu la decisione di cancellare la visita a Washington prevista per martedì scorso, a sole 24 ore dal contestato blitz. L'unico esponente dell'Amministrazione a prendere posizione è stato il segretario di Stato, Hillary Clinton, che ha definito insostenibile la situazione umanitaria a Gaza, facendo appello a "reazioni attente e ponderate".
I rapporti tra Israele e gli Stati Uniti sono ai minimi storici, come riconosce la maggior parte degli osservatori. Prima gli insediamenti ebraici a Gerusalemme est, poi la questione della denuclearizzazione del Medio Oriente - la firma americana del Trattato di non proliferazione con l'esplicito riferimento a Israele - hanno raffreddato non di poco la storica relazione privilegiata tra i due Paesi. E dire che nelle ultime settimane erano stati registrati anche segnali distensivi:  l'avvio dei colloqui indiretti grazie all'instancabile mediazione dell'inviato speciale Mitchell, il blocco di fatto delle ruspe in Cisgiordania e la riapertura ai palestinesi della route 443 che collega Gerusalemme e Tel Aviv. Ora invece le carte si sono rimescolate e la prospettiva di un accordo completo entro due anni, come auspicato da Obama, sembra molto lontana. Ma nell'immediato, anche in vista delle elezioni di mid-term, l'importante è superare lo stallo e riportare tutti al tavolo delle trattative.
I timori di Israele, in parte giustificati dalle continue invettive di molti leader regionali, riguardano il progressivo avvicinamento della Turchia all'Iran e il rafforzamento dell'asse Ankara-Teheran-Damasco, tre Paesi sospettati d'intrattenere speciali relazioni con Hamas ed Hezbollah. Timori che alimentano quella "mentalità da costante assedio" che, come sostengono in tanti, è una delle principali cause del blitz di due giorni fa. Ma i media sostengono la tesi del complotto:  le imbarcazioni della "Freedom Flotilla" erano una trappola politico-militare tesa al Governo Netanyahu per deteriorare l'immagine di Israele in tutto il mondo e favorirne l'isolamento diplomatico. Fonti del comando della marina parlano di errori dei servizi segreti, errori tattici dalle conseguenze disastrose. Molti esponenti della società civile israeliana chiedono le dimissioni del ministro della Difesa e vice premier, il laburista Ehud Barak, per non aver previsto le possibili reazioni dei passeggeri della Mavi Marmara, la nave turca che guidava la flotta pacifista. Sullo sfondo, infine, c'è lo spettro di una nuova Intifada, la terza. Le proteste in Cisgiordania potrebbero surriscaldarsi scatenando un'ondata di violenze ancor peggiore delle precedenti, anche a causa del sostegno della parte araba della popolazione israeliana. E in tutto questo Hamas non resterà a guardare.