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Genetica e dignità umana

Il mondo a due binari


di Carlo Bellieni

La recente Giornata mondiale delle cellule staminali ha fra l'altro commemorato il primo trapianto di cellule del cordone ombelicale eseguito con successo in Francia. Contemporaneamente, ricercatori italiani dell'istituto Mario Negri hanno ricevuto un premio internazionale per l'uso rigenerativo delle cellule staminali, e l'Harvard Stem Cell Institute ha scoperto come ottenere cellule staminali da semplici cellule della pelle. Tutte ottime notizie.
Ma proprio in questi giorni abbiamo letto dell'inizio negli Stati Uniti di esperimenti con embrioni umani usati come  fossero  comuni  farmaci,  e questa invece ci sembra una di quelle notizie che il premio Nobel Theodore Woodward insegnava a definire zebre, cioè diagnosi (e terapie) poco probabili, che vengono avanzate pur esistendone altre dirette e semplici. "Se sentite il rumore degli zoccoli a cosa pensate, spiegava:  a un cavallo o a una zebra?". L'uso di cellule embrionali umane è la zebra della medicina rigenerativa, dato che le staminali adulte sono facili da ottenere, mentre quelle embrionali richiedono apparecchi sofisticati e la risoluzione di dilemmi etici di non poco conto.
Già, un embrione umano non merita di essere trattato "da farmaco"; perché è umano, e questo lo riconoscono anche coloro che non vogliono poi trarre la conclusione della sua intangibilità:  "Uno zigote non rientra nella nostra usuale idea di essere umano. Tuttavia, appartiene alla razza umana" (Marcel Leist su "AltEx", 2008); "un embrione umano è ovviamente un essere umano in senso biologico" (Bertha Alvarez, Philosophy, Ethics and Humanity, in "Medicine", 2008); mentre l'European Society for Human Reproduction and Embryology, spiega che "l'embrione preimpianto è umano" e "merita il nostro rispetto come simbolo di una futura vita umana", frase quest'ultima che attenua ma non cancella la precedente.
Dunque il dibattito in casa scientifica non è mai stato se l'embrione è un essere umano o una cosa inanimata:  tutti accettano che l'embrione sia umano e, per ovvi motivi, che sia vivo. Il problema che si dibatte è un altro:  se questa vita umana valga meno di altre vite umane e si possa sacrificare per il bene di queste. La filosofa Bertha Alvarez sostiene a esempio che essere biologicamente un essere umano non significa essere una persona, mentre Julian Savulescu così riassumeva su "Bioethics" del 2002 il suo pensiero:  "Ammetto per amore di discussione che il feto sia una persona. Nonostante ciò può essere giustificato ucciderlo".
Non è solo l'embrione ad avere orwellianamente un trattamento meno uguale degli altri, ma si assiste paradossalmente alla creazione di una categoria di soggetti che ha un diritto di cittadinanza subordinato all'interesse di altri, non alla loro specifica esistenza:  sono degli apolidi morali, verso i quali si compiono ogni giorno migliaia di respingimenti, ricacciandoli nelle acque extraterritoriali della non cittadinanza. Per Patricia Werhane "vari esseri umani, per esempio gli handicappati mentali, e le demenze senili non rientrano nella stretta classificazione di persone" ("Theoretical Medicine", 1984) e per Len Doyal ("Archives of Disease in Childhood", 1994) anche i bambini senza ritardo ma con grave dolore fisico tale da minarne la capacità di autonomia potrebbero non essere considerati persone; per lui ("British Medical Journal", 1994) "i diritti umani dipendono dalla possibilità di esercitarli".
Ovviamente rientra tra le non persone anche la vita prenatale, tanto che su questa distinzione si basano le leggi sull'aborto in mezzo mondo; e ormai vi rientra anche il bimbo già nato:  Annie Janvier sul "Journal of Perinatology" ha mostrato che "il valore attribuito alla vita dei neonati è inferiore a quanto ci si aspetterebbe sulla base dei dati clinici", e Michael Gross ("Bioethics", 2002) spiega che le scelte per rianimare i neonati tengono conto non solo del loro interesse, ma anche "dell'interesse di terzi". Su queste premesse Pierre Maroteaux, studioso di nanismo, titolava J'accuse! l'articolo in cui ("Archives de Pédiatrie", 1996) chiedeva:  "Le persone con bassa statura hanno ancora diritto di cittadinanza?". Si subordina il diventare persone non a eventi biologici oggettivi, ma alla scelta del genitore:  se il genitore vuole, il feto o il bimbo prematuro saranno considerati persone e curati; altrimenti saranno lasciati morire.
Insomma, viviamo in un mondo a due binari, dove il passaggio da quello di serie A a quello di serie B dipende non dalla natura delle cose, ma dall'accettazione degli altri:  una sorta di diritto del pater familias sul figlio. Per Robert Williamson ("Journal of Medical Ethics", 2005) l'embrione acquista valore etico solo se c'è "l'intenzione di farlo diventare una persona", cioè se viene scelto da qualcuno diventa dei nostri, altrimenti resta apolide, e "il valore che si accorda all'embrione dipende da criteri esterni all'embrione e legati alle intenzioni altrui" dice Katrien Devolder ("Journal of Medical Ethics", 2005).
Avere il potere di umanizzare l'altro rappresenta un assoggettamento dell'uomo sull'uomo, imbarazzante anche per chi richiama il diritto a nuove forme procreative. E ci richiama a una salvaguardia non più solo del diritto alla vita, ma di un diritto al riconoscimento dell'umanità di chi se ne vede privato:  nella serie B delle non persone inevitabilmente finiscono anche i disabili mentali, e prima o poi tutte le altre forme di emarginazione, che non sono in grado di esercitare autonomia, cioè di aver voce sulle scelte che li riguardano. L'attenzione cattolica, cioè contraria a ogni emarginazione, è una via basilare della Chiesa. E a essa guardano quanti rifiutano un'etica che crea steccati tra cittadini uguali per genetica e per dignità.