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Tra cure proporzionate e accanimento

La fine naturale
della vita


di Ferdinando Cancelli

"Ero malato e mi avete visitato" (Matteo, 25, 36). "A voi, ricercatori e medici, spetta mettere in opera tutto quello che è legittimo per sollevare il dolore; spetta a voi in primo luogo proteggere la vita umana, essere i difensori della vita dal suo concepimento fino alla sua fine naturale" affermava Benedetto XVI visitando il Centro Cardinale Paul Emile Léger di Yaoundé, in Camerun, il 19 marzo 2009. Lo stesso tipo di messaggio sarà udito in ben diverso ambiente:  nella Sala dei Ricevimenti della Hofburg di Vienna, il 7 settembre 2007, il Papa affermerà:  "È nell'Europa che, per la prima volta, è stato formulato il concetto di diritti umani. Il diritto umano fondamentale, il presupposto per tutti gli altri diritti, è il diritto alla vita stessa. Ciò vale per la vita dal concepimento sino alla sua fine naturale".
Un ascolto non superficiale di queste parole rappresenta un mandato da compiere e pone un interrogativo:  se è chiaro, anche alla luce dei progressi dell'embriologia, che il concepimento, l'unione cioè dello spermatozoo del padre con l'oocita della madre, rappresenta l'inizio della vita di una persona, altrettanto chiaro significato va attribuito alla definizione "fine naturale" della vita. In altre parole, che cosa si intende quando si parla di "fine" o di "compimento naturale" della vita? È evidente che non si possa attribuire all'aggettivo "naturale" il significato di "affidato alla storia naturale di malattia":  quest'ultima descrive infatti in medicina l'andamento di una malattia lasciata a se stessa, non curata con alcun mezzo e, in molti Paesi del mondo, è fortunatamente sempre più raro che il medico si imbatta in simili casi nei quali la natura sia lasciata libera di fare il suo corso. Assumere un semplice antibiotico per una banale infezione è già di per sé mezzo per modificare la "storia naturale" di una malattia.
La risposta va quindi cercata altrove e il magistero ci viene in aiuto con Giovanni Paolo II, tra quelli dedicati al "dramma dell'eutanasia". "Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati - si legge nell'enciclica Evangelium vitae (n. 64-65) - la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili (...) ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema".
La differenza tra gli interventi terapeutici adeguati (proporzionati), secondo criteri oggettivi, alla situazione del malato e interventi inutili o dannosi (sproporzionati, tali da configurare un vero e proprio "accanimento terapeutico") è anche descritta poco oltre dallo stesso Pontefice parlando della "decisione di rinunciare al cosiddetto "accanimento terapeutico", ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati rispetto ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi".
Possiamo cercare di comprendere a fondo queste parole con un esempio:  quello di un malato oncologico giunto agli ultimi giorni di vita dopo aver interrotto chemioterapie che, non dando in tal caso più alcun risultato, risultano ormai inutili e gravose (quindi "sproporzionate"). Questo malato è destinato alla "fine naturale" della vita e le uniche cure "proporzionate" per lui saranno quelle che mirano al controllo dei sintomi e all'accompagnamento; in un caso come questo anche la nutrizione e l'idratazione clinicamente assistite, doverose in fasi più precoci di malattia se il malato non può più assumere autonomamente cibo e acqua, potrebbero rivelarsi mezzi "sproporzionati" se l'organismo non fosse più in grado di assimilarli.
Circoscrivendo quindi il campo a quelle situazioni in cui "la morte si preannuncia imminente e inevitabile" e sottolineando anche in questi casi la necessità delle cure normali, come le cure igieniche, Giovanni Paolo II ci permette quindi di comprendere bene le parole del suo successore Benedetto XVI:  la "fine naturale" della vita è quella alla quale una persona va incontro nonostante il ricorso a mezzi di cura proporzionati. La rinuncia invece a mezzi sproporzionati quindi inutili o dannosi, conclude Giovanni Paolo II citando le parole della Dichiarazione Iura et bona del 5 maggio 1980, "non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte".