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Quando la qualità della vita è il solo criterio di giudizio

Chi decide
se un'esistenza è "indegna"

di FERDINANDO CANCELLI

Il recente caso di un medico, accusato di avere praticato l'eutanasia su sette dei suoi pazienti uccidendoli allo scopo "di abbreviarne le sofferenze", ha riacceso il dibattito sull'applicazione della legge sul fine vita in Francia. Al di là della gravità di quanto accaduto e dopo alcuni interventi di medici e giornalisti pubblicati in questi giorni dalla stampa francese, il fatto offre la possibilità di una riflessione dall'esterno.
Dalle parole dette e scritte emergono con chiarezza almeno due evidenze: la scarsa conoscenza dei principi della medicina palliativa e la tentazione di considerare la vita più o meno degna di essere vissuta a seconda delle caratteristiche e delle capacità che si rendono visibili in una persona malata o disabile. Da un reparto di emergenza di una città francese, un medico, in un'intervista pubblicata l'8 settembre da "Le Monde", afferma che sovente in urgenza si presenta il dilemma se applicare o no i mezzi di sostegno vitale a pazienti in pericolo di vita e aggiunge che "si somministra frequentemente della morfina per alleviare le sofferenze del paziente". Questo - continua - "probabilmente abbrevia la vita ma almeno il malato morirà nella dignità".
Una tale affermazione può essere fuorviante perché induce a pensare che il malato in questione muoia per la somministrazione di morfina e non per la mancata applicazione dei mezzi di sostegno vitale. Tale confusione può nascere solo se non si tengono presenti i progressi della medicina palliativa: se somministrati a dosi opportune con l'intenzione di alleviare la sofferenza e non di uccidere una persona, i farmaci oppioidi non solo non abbreviano la vita ma possono anche allungarla eliminando lo stress fisico e psichico che deriva dalla sofferenza.
La morte dignitosa non è perciò quella provocata da un medico che vuole abbreviare l'esistenza del malato ma quella alla quale il malato stesso va incontro accompagnato da chi, nel curarlo, ha il solo obiettivo di alleviarne le sofferenze, anche con l'uso della morfina, secondo i principi etici e scientifici della medicina palliativa.
Sempre dalle colonne del quotidiano francese e sempre dalla bocca di un medico, questa volta una neurologa di un grande ospedale parigino, si raccoglie la seguente frase, riferita alla decisione di non rianimare pazienti colpiti da attacchi vascolari cerebrali acuti e destinati magari a vivere con importanti deficit fisici o mentali: "Si è coscienti di decidere della vita o della morte. Ci si domanda se la vita con un tale handicap merita di essere vissuta, se la morte non sia preferibile".
Consci dell'estrema delicatezza della situazione e del corteo di sofferenze che un tale evento può scatenare nel malato e nei familiari, ci si deve però interrogare a fondo sulla gravità di affermazioni come queste che fanno della "qualità della vita" il supremo criterio di giudizio.
Il primo pensiero va a tutte quelle famiglie la cui vita e dedizione - come ha affermato Benedetto XVI lo scorso 20 agosto durante la visita all'istituto della Fondazione San José di Madrid - "proclamano la grandezza alla quale è chiamato l'uomo: accompagnare per amore chi soffre, come ha fatto Dio".
Sono davvero tante le persone che seguono ogni giorno - al prezzo di indicibili fatiche e districandosi in una complicatissima giungla di ostacoli anche burocratici - i loro cari, i quali, sopravvissuti a crisi di questo tipo, non sono più come prima e sarebbero ormai divenuti "vite non degne di essere vissute". Bisogna invece prestare molta attenzione ad affibbiare l'etichetta di "indegno" a chi, sopravvissuto con la propria debolezza, può ancora insegnare a pensare e magari anche a vivere.