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Tra incognite e strategie politiche

Erdogan, Obama
e la crisi in Vicino Oriente

di LUCA M. POSSATI

Irreversibile. Un solo aggettivo dimostra meglio di tante parole la complessità dell'attuale situazione politica in Vicino Oriente. L'ha usato il presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, parlando della decisione di presentare il prossimo 23 settembre la domanda di riconoscimento della Palestina (entro confini del 1967) come Stato membro delle Nazioni Unite. L'iniziativa è "una mossa unilaterale" resasi necessaria - ha spiegato il raìs - a causa dello stallo dei negoziati con gli israeliani che dura ormai da più di un anno. Non è un caso che Abu Mazen abbia deciso di parlare a pochi giorni di distanza dalle dichiarazioni di un altro leader, Recep Tayyip Erdogan. Dal Cairo, infatti, il premier turco ha detto che "il riconoscimento di uno Stato palestinese non è una scelta, ma un obbligo". Toni duri, cui si è unito anche il primo ministro egiziano, Essam Sharaf, secondo il quale l'accordo di pace di Camp David (siglato da Sadat e Begin nel 1978) "non è intoccabile". Frasi inattese da parte di Paesi tradizionalmente amici di Israele.
Che cos'è successo allora? Quali nuovi equilibri diplomatici si stanno disegnando? Dove ci sta portando la primavera araba? Un fatto innegabile è che la Turchia punta a un ruolo di primo piano nello scacchiere regionale. Erdogan è stato chiaro: il Medio Oriente ha bisogno di riforme politiche e sociali. E Ankara, forte di una crescita economica che sfiora il nove per cento del pil, vuole essere la punta di diamante di un tale cambiamento scalzando l'Arabia Saudita e l'Iran. Per ottenere tale risultato Erdogan è pronto anche alla rottura di un'amicizia strategica di lunga data, come quella con Israele. Le vicende legate alla Freedom Flotilla - nel maggio 2010, quando, nel corso di un raid israeliano, furono uccisi otto cittadini turchi sulla nave Mavi Marmara che si stava dirigendo a Gaza per forzare il blocco - sono state il detonatore di una rottura annunciata da tempo. Due settimane fa Erdogan ha espulso l'ambasciatore israeliano e poi sospeso tutti gli accordi di cooperazione militare con Tel Aviv. Già nel 2009, pochi mesi dopo Piombo Fuso, egli aveva abbandonato il forum di Davos in disaccordo con l'intervento del presidente israeliano Peres. La primavera araba ha fatto il resto, con i cambiamenti dei Governi in Egitto, in Tunisia e in Libia. Non da ultimo, la crisi siriana.
Su quale sia la vera linea politica che il premier turco intende seguire, i pareri divergono. Alcuni sottolineano come, in virtù della sua natura di democrazia avanzata e sostenuta da solidi rapporti con l'Europa e gli Stati Uniti, Ankara possa garantire la stabilità. Altri invece restano scettici. L'opposizione turca, capeggiata da Kemal Kilicdaroglu, ha aspramente criticato la decisione d'interrompere i rapporti con Tel Aviv. "Non può venire nulla di buono da tutto questo e non c'è bisogno di mettere a rischio i nostri interessi" ha affermato Kemal Kilicdaroglu.
E Israele? Nessuno può dire se una situazione come quella attuale possa favorire la ripresa di un dialogo vero con i palestinesi. Lo ha auspicato il ministro della Difesa, Ehud Barak, ma le variabili in gioco sono troppe per poter tracciare diagnosi esatte. Troppe le anime della coalizione al Governo: mentre il premier Netanyahu parla di negoziati diretti con l'Olp come l'unica vera strada da seguire, il suo ministro degli Esteri e vice premier, Avigdor Lieberman, minaccia "conseguenze gravi e dure" a un voto Onu sulla Palestina. Dopo l'assalto della folla all'ambasciata israeliana al Cairo, Netanyahu ha avviato consultazioni con le autorità egiziane, tenendo comunque a precisare che "non va ignorata la grave offesa alla sostanza della pace con Israele e l'evidente violazione della legge internazionale".
L'atteggiamento della Casa Bianca pare improntato al massimo realismo. Obama ha detto che la domanda di riconoscimento palestinese all'Onu è soltanto "un diversivo" che non risolve lo storico contenzioso. Washington sostiene che l'obiettivo dei due Stati (Israele e Palestina) dev'essere raggiunto attraverso negoziati di pace e non con mosse unilaterali. Obama stesso, però, in passato aveva aperto a una soluzione condivisa "con scambi di territori accettati da entrambe le parti". Intanto il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha già inviato nella regione due nuovi mediatori il cui duplice obiettivo sarà quello di evitare il voto palestinese a New York e di rilanciare il dialogo.
C'è però una domanda che finora pochi si sono fatti: l'America di oggi - piegata dalla peggiore crisi economica della sua storia e da due guerre - potrà ancora farsi garante degli equilibri in Medio Oriente?