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Un caso di emarginazione della disabilità

La paura è il problema

di MARIAPIA VELADIANO
Scrittrice, preside a Rovereto

Ci sono tante persone in gioco. Delle intenzioni è impossibile parlare. E i fatti sono solo apparentemente semplici.
Qui i fatti si rimettono a noi nella forma di due foto di classe: in una, raccontano le cronache italiane, la classe è al completo; in un'altra manca una compagna segnata dalla sindrome di down. La prima era venuta male, dice la scuola, e così ne è stata fatta una seconda in un giorno in cui la bambina era assente. La sua insegnante di sostegno c'è, infatti. La prima foto è stata consegnata alla famiglia della bimba, la seconda a tutte le altre famiglie. Chi conosce la felice caotica congestione della vita di scuola sa che può capitare davvero. Che la foto venga male. Che qualcuno sia assente. Che si dica: Peccato, ma pazienza. Difficile esserci tutti. Di norma non capita che si distribuiscano foto diverse, questo è bizzarro. E mai dovrebbe capitare che un comportamento, una scelta, una procedura magari distratta possa apparire, anche solo apparire, crudelmente discriminatoria.
A questo serve la scuola, anche. A non essere lo specchio della parte meno buona della società. A custodire il nostro vivere civile coltivando attenzioni dismesse da un costume sfrontato in cui ostentare indifferenza e disprezzo verso la disabilità è un agire tollerato fin dentro al parlamento, in cui ogni diversità diventa estraneità nemica, in cui i rapporti possono essere dissipati dalla prevaricazione esibita come valore o dall'ostentazione del potere. E questo custodire e coltivare la scuola lo fa tutti i giorni. Forse per una volta non lo ha fatto o è stata distratta.
L'indignazione e il giudizio permettono di conservare la distanza e di coccolarsi nell'idea che il fatto non ci riguarda. Ma non è così. E non perché sarebbe potuto accadere anche a noi. Magari proprio no, magari noi saremmo stati più vigili. Ci riguarda perché stiamo da tempo consegnando la società e quindi noi stessi e i ragazzi al desiderio di una perfezione falsa che ci impoverisce tutti. Perché se una cosa così è accaduta non è nata dal nulla ma da un contesto culturale che considera una certa idea di perfezione un diritto acquisito, spesso attraverso la ricchezza. Perfezione declinata in bellezza del corpo, salute, successo, giovinezza, eterna giovinezza da comprare pezzo per pezzo. Il mito dell'immortalità del corpo che prende il posto dell'immortalità del bene. E uno sradicamento dalla nostra stessa vita.
L'infinita, imperfetta, a volte dolorosa e incomprensibile eppure meravigliosa varietà dell'esistenza può forse essere tolta alla nostra vista ma non dalla nostra vita. E quindi l'operazione richiede un atto di disonestà verso noi stessi, verso la vita, verso gli altri. Quel che non mi piace non c'è. Ma non è vero, semplicemente. Si può vivere così?
Negare il dolore, la diversità è un'operazione spaventosamente costosa in termini di accecamento. Richiede una vita in corsa, che non allarghi mai lo sguardo sul mondo intorno. Un autoconvincersi giorno dopo giorno, momento dopo momento, che la vita è tutta lì, in una normalità difesa a costo del sacrificio della nostra comune umanità.
Alcune tradizioni leggono la creazione come atto in cui Dio si ritira per lasciare spazio all'uomo e così anche in questo lasciare spazio la sua divinità si manifesta. Noi stiamo costruendo un nostro vivere a spese dell'altro, di moltissimi altri. Ma la vita perfetta dell'unica perfezione possibile, cioè la vita vera, è invece vedersi, tutti, tutti diversi, nelle nostre qualità, imperfezioni, possibilità, impossibilità, debolezze, fughe. Trovarsi dimenticandosi nell'altro. Vale in amore e in qualsiasi rapporto. E poi perdonare le leggerezze, le distrazioni e anche le colpe. Ormai è successo. Che ci sono due fotografie, in una lei c'è, in una no. Che tutti hanno quella in cui lei non c'è. Che lei sola ha quella in cui appare. Consegnata a una propria particolare solitudine dell'esistere anche nella foto.
Questo succedere ha la forza di un assoluto. Non c'è algebra dell'offesa, un bene accanto al male subìto non dà come risultato zero, una specie di nuovo inizio. Però si può riparare. I rapporti si riparano sempre, è la nostra fede cristiana e insieme laica: quanti torti ha dovuto riparare la storia del Novecento per non congelarsi nella disciplina del rancore e delle rivendicazioni. Si riparano nella verità del dire quel che capita, come meravigliosamente sta scritto nel libro del profeta Zaccaria (8, 16): "Ecco ciò che dovete fare: dite la verità ciascuno con il suo prossimo", e nel far sì che l'offesa che ci sfugge diventi argine al male. Tutti i giorni, tutti i minuti, un sorvegliare insieme atti e desideri: di qui il male non passa, non passa. Certo oggi si tratta di andare contro un pensiero e un agire che per un po' ci rassicura nel nostro essere privilegiati. Possiamo scoprirci vulnerabili e avere una paura. La paura è il problema. E davvero la paura la si vince solo insieme.