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Per arginare la crisi a livello globale

Strategia
della solidarietà


di ETTORE GOTTI TEDESCHI

Nel mondo occidentale l'esigenza di sgonfiare (deleveraging) il debito prodotto in trent'anni da famiglie, imprese, istituzioni finanziarie e Stati sta provocando quel fenomeno che, per semplificare, viene definito recessione, cioè crescita negativa del prodotto interno lordo. Il pil si contrae perché le famiglie riducono i consumi, le imprese producono meno, le banche limitano le intermediazioni, gli Stati mirano a indebitarsi meno. I capitali disponibili sono scarsi e più costosi, il credito è inferiore e, soggettivamente, più costoso, a causa delle differenze tra spread. Il superamento della recessione non sarà facile né realizzabile a breve.
Austerità è l'espressione che meglio contraddistingue questa fase economica del mondo occidentale. Ma non va trascurata la tentazione di trasferirla ad altri Paesi.
Europa e Stati Uniti, dopo decenni di delocalizzazione produttiva, devono ora reindustrializzarsi per sostenere l'occupazione interna e ritrovare una nuova competitività. Ma, senza tanti capitali per gli investimenti, si tenterà la strada delle riforme per creare maggiore produttività e ottenere minori sprechi. Si cercherà, quando possibile, di ridurre l'importazione di prodotti e di reimportare le produzioni. Scenari diversi da questi lasciano prevedere tensioni sociali difficilmente gestibili. Non è nemmeno da escludere che si giunga alla svalutazione delle monete e alla protezione di settori economici considerati strategici.
Il desiderio di non subire o di limitare l'impatto della recessione si potrà quindi concretizzare in un trasferimento dei problemi sui Paesi emergenti, su quegli stessi Paesi cioè dove nel recente passato sono state spostate le produzioni. Faticando però ad avviare il vero motore della ripresa economica occidentale: promuovere la formazione delle famiglie.
L'impatto di queste strategie sui Paesi emergenti potrebbe essere grave perché le loro economie, ancora fragili, vedrebbero bruscamente ridotte le esportazioni, con la conseguente diminuzione dei capitali in entrata. Anche queste Nazioni sperimenteranno la contrazione del pil e dovranno cercare di fare crescere la domanda interna. Ma questa scelta potrà produrre alcuni effetti quali l'uso di capitali per aumentare gli investimenti interni e la crescita del potere di acquisto locale, che, in definitiva, significa anche un maggiore costo del lavoro. Si tratta di un processo che, una volta innescato, condurrà all'aumento dei prezzi dei prodotti esportati e, quindi, a una competitività più scarsa.
In occidente, grazie alle tecnologie, le produzioni che richiedono una mano d'opera meno costosa troveranno nuova competitività e questo richiederà ai Paesi emergenti di specializzarsi in produzioni più costose - non compensabile dalle tecnologie - che saranno però sempre più oggetto di competizione fra quelle stesse Nazioni, con riflessi negativi sulle meno attrezzate. I Paesi emergenti più ricchi e tecnologicamente avanzati potranno cercare di penetrare in occidente, acquisendo imprese e producendo localmente. Ma sarà indispensabile che accettino regole per loro del tutto nuove.
Si configurano rischi d'impatto che andranno gestiti strategicamente per non indebolire le fasce più vulnerabili della popolazione e i Paesi più poveri, che stavano appena entrando nel ciclo del benessere, seppure con limitate capacità di competizione.
Oltre le strategie occidentali di reindustrializzazione, è quindi il mondo intero a doversi alleare per uscire insieme dalla crisi e consentire che il riequilibrio della distribuzione della ricchezza - iniziato con la globalizzazione - possa compiersi senza egoismi, ma con solidarietà e giustizia. Il mondo globale non può sopportare nuove delocalizzazioni. Soprattutto della crisi e della povertà.