Index   Back Top Print


logo

La medicina al tempo della crisi

Ritorno all'essenziale

di Carlo Bellieni

La medicina fa i conti con la crisi: le risorse si riducono, le domande diventano meno legate ai capricci ed è sempre più chiaro il divario tra quello che la sanità offre e ciò che realmente serve. In primo luogo i conti devono farli i medici. Sul "New York Times" del 5 giugno un commento sostiene che i medici prescrivono troppi esami, forse per profitto o a causa di una certa cultura che sopravvaluta le proprie esperienze tenendo in poco conto protocolli e letteratura scientifica.
Ma anche - si può aggiungere - per un indulgere a ogni richiesta del pubblico, e a motivo dell'alto tasso di denunce per insuccessi scambiati per colpe (oltre otto miliardi di dollari l'anno di risarcimenti per errori medici negli Stati Uniti). A proposito di quest'ultimo dato, l'"American Journal of Ortopedics" riporta che il 96 per cento dei medici ammette di aver prescritto per paura di denunce esami che non hanno utilità per i pazienti. Questo fatto ha conseguenze economiche immaginabili. Certo non rappresenta tutto il mondo medico - ci sono forti resistenze a questa tendenza - ma indica un disagio legato a una medicina consumista e ormai conflittuale.
In secondo luogo, i conti deve farli la sanità mondiale, che deve ritrovare le vere priorità: meno peso alla medicina dei capricci, più ricerca e investimenti per le malattie rare, per le pandemie del terzo mondo e per la cura delle fasce più deboli. Lo hanno chiesto di recente Mencap, l'associazione britannica per disabili mentali, e la rivista "Lancet", secondo la quale per il sistema sanitario costoro sono ormai diventati invisibili, perché difficili da comprendere e gestire.
Ma soprattutto i conti li deve fare la cultura, perché i medici ormai hanno un rapporto critico col proprio lavoro. "Perché i medici non sono felici?" si chiedeva il "British Medical Journal", spiegando: "I medici sono tristi. Non tutti sono sempre tristi, ma quando si riuniscono, la loro conversazione verte su lamentele e desideri di precoce pensionamento". Già, il logoramento cresce: depressione, disillusione, senso di impotenza, forse perché la medicina ha perso il suo slancio; gli ospedali sono aziende, i malati "utenza" e il medico ovviamente un "fornitore di servizi".
Si manifestano allora, soprattutto nei periodi di pieno consumismo, derive che non portano vera soddisfazione a chi cura. Cresce la medicina dei desideri, per la quale si va dal medico come al supermercato; e cresce la medicina commerciale, il disease mongering per il quale certe case farmaceutiche trasformano condizioni normali come la timidezza o la calvizie in malattie per creare allarme e vendere farmaci, come denunciato più volte dalla rivista "Plos Medicine".
Ma in tempo di crisi sembrano crollare certe pretese ed eccessi, e bisogna ritornare all'essenziale. Ci si accorge allora che curare non significa seguire i capricci di futuribili manipolazioni genetiche o di altre richieste stravaganti, ma "prendere a cuore"; e non interessarsi solo di un particolare, come vorrebbe qualche mansionario, ma di tutta la persona. Lo suggerisce il verbo inglese to heal ("guarire"), che ha la stessa radice etimologica di whole ("integrale").
La medicina non si arrende quando la malattia non è più guaribile, perché resta la possibilità di curare la persona. La salute è la soddisfazione personale, che certo non è preclusa al disabile, come invece vorrebbe una certa cultura della perfezione consumista che ha dimenticato cosa vuol dire davvero "salute" e la confonde con un utopico completo benessere.