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Cinquant'anni fa, il 22 novembre 1963, veniva assassinato il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy

Tra Camelot e Gerusalemme

di Robert Imbelli

Gli americani di oggi, che erano già nati il 22 novembre 1963, giorno in cui il presidente John Fitzgerald Kennedy venne assassinato, sanno dire esattamente dove si trovavano quando appresero la devastante notizia. Riescono ancora a ricordare il turbamento, il disorientamento e la paura provati allora. Naturalmente, anche se si sapeva che altri presidenti erano stati assassinati (Lincoln nel 1865, McKinley nel 1901), quella era solo storia. Questa, invece, dolorosa realtà: la nostra realtà, il nostro dolore.
L'affascinante giovane presidente e la sua affascinante e raffinata moglie sembravano rappresentare il volto di una nuova generazione di americani. Il presidente aveva parlato di una "nuova frontiera", una frontiera che comprendeva l'esplorazione dello spazio, ma anche il miglioramento delle condizioni sulla terra. È famoso l'invito che rivolse agli americani: "Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi; chiedete cosa voi potete fare per il vostro Paese". Molti giovani risposero, partecipando alle nuove iniziative avviate da Kennedy, come i Peace Corps.
La prima volta che andai a votare in una elezione presidenziale fu nel 1960, e come tanti altri miei compagni votai per Kennedy. L'elezione del primo presidente cattolico significò che i cattolici finalmente avevano ottenuto piena cittadinanza nella vita politica della Repubblica. L'inizio degli anni sessanta segnò anche l'apogeo della dimensione istituzionale della vita cattolica negli Stati Uniti. Venivano costruite nuove chiese e scuole per rispondere ai bisogni di una popolazione cattolica in espansione e in crescita; fiorivano le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa. Il ritratto emblematico che raffigurava Giovanni XXIII e il presidente Kennedy uno accanto all'altro sembrava promettere una nuova era, sia per la Chiesa sia per la Nazione: una nuova Pentecoste, ecclesiale e civile.
Kennedy è stato definito il primo presidente televisivo. Molti sostengono che ha vinto le elezioni perché il suo aspetto bello e sano, durante il primo dibattito televisivo della storia americana, contrastava con quello dimesso e anonimo del suo antagonista, Richard Nixon. Tragicamente, il suo funerale divenne il primo spettacolo televisivo che unì il mondo in un villaggio globale, con milioni di persone raccolte attorno ai propri bivacchi elettronici.
Il 22 novembre 1963 studiavo teologia a Roma e vivevo al collegio Capranica. Dopo cena, molti di noi si diressero come al solito verso il piccolo televisore per guardare il telegiornale della sera. Fu allora che ascoltammo la notizia quasi incredibile della sparatoria a Dallas. L'incredulità si trasformò in orrore quando, poco dopo, venne annunciato che il presidente era morto. Il fatto di trovarsi a cinquemila miglia da casa, senza alcuna possibilità di comunicare direttamente con i propri cari, con cui condividere lo sgomento e il dolore, rendeva il peso ancora più pesante. I giorni seguenti, che si conclusero con i funerali di Stato e la messa esequiale, trascorsero come in un sogno. Il Dies irae di quella messa non era mai risuonato così potente e pauroso. Gli impegni quotidiani, la preghiera, il lavoro e lo studio venivano svolti automaticamente, ma con la sensazione che la propria vita sarebbe stata segnata per sempre dagli eventi di quella giornata nera.
Naturalmente la vita andò avanti. A Roma la seconda sessione del concilio terminò due settimane dopo, seguita da altre due prima di concludersi nel 1965. Negli Stati Uniti, lo storico Civil Rights Act venne finalmente approvato dal Congresso, favorito dell'emozione suscitata dall'assassinio di Kennedy e dalla grande abilità legislativa del suo successore, Lyndon Johnson. Tuttavia, le speranze suscitate dai documenti conciliari e dalle leggi del Congresso furono messe fortemente alla prova da quanto accadde in un altro anno tragico: il 1968. Negli Stati Uniti furono assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy, in alcune città scoppiarono sommosse e molte università furono sconvolte dai tumulti. Nella Chiesa la promulgazione dell'enciclica Humanae vitae deluse le attese di molti cattolici. Sacerdoti e religiosi abbandonarono, in numero crescente, la loro vocazione, lasciando relativamente vuoti residenze e conventi un tempo pieni. Era iniziata una fase di polarizzazione intensa.
La Camelot dell'era Kennedy ebbe vita breve. Inoltre, in seguito si rivelò più mito che realtà, troppo spesso sfigurato da segrete infedeltà. Ancora una volta fu chiaro che le riforme vere e durature devono sempre scontrarsi con la mutevolezza del cuore umano. Senza conversione autentica, il benessere e l'integrità sia della Nazione sia della Chiesa sono compromessi e corrosi.
Cinquant'anni dopo quella triste giornata di novembre, ci stiamo avvicinando ancora una volta alla fine dell'anno liturgico. Quest'anno la solennità di Cristo Re segna anche la fine dell'Anno della fede indetto da Benedetto XVI. Ma nel senso più profondo ogni anno è un anno della fede. Di fatto, ogni giorno esige dai credenti un nuovo inizio, un nuovo incentrarsi su Cristo via, verità e vita, una continua conversione a Cristo, solo santo e solo Signore, come proclamiamo nel Gloria. E le speranze dei credenti non sono riposte in una qualche mitica Camelot, ma nella nuova Gerusalemme, che scende "dal cielo, da Dio" (Apocalisse, 21, 2).