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Quando Paolo VI andò a pregare sulla tomba del cardinale Pizzardo 

Papa della riconciliazione

 

di Carlo Di Cicco

Paolo VI, insieme a Giovanni XXIII al quale era fortemente legato, è stato e resterà nella mia mente il papa del concilio Vaticano II. Diversi per caratteristiche, Roncalli e Montini erano spiritualmente assimilati dall'amore alla Chiesa e dal desiderio di renderla capace di annunciare il Vangelo in modo trasparente e comprensibile agli uomini loro contemporanei. Il riconoscimento della santità dei due maggiori artefici del concilio diventa una chiave di lettura autentica e autorevole per comprendere anche la missione di Papa Francesco, ancorato al concilio considerato un dono di Dio che la Chiesa, anziché discutere, è chiamata a mettere in pratica.

Si deve a Paolo VI se le grandi intuizioni giovannee hanno trovato concretezza per diventare realtà operanti nella vita quotidiana cristiana. Con Montini, infatti, la celebrazione del concilio si è completata avviandone i cambiamenti richiesti. Alcuni enormi e tutti benefici nell'ambito della liturgia, nella rinnovata coscienza di Chiesa, nel modo di intendere il papato e il suo esercizio, nella Curia romana, nella vita religiosa, nel rapporto tra le Chiese e le religioni, nella comprensione reciproca tra Chiesa e mondo moderno, tra credenti e non credenti, nell'impegno per la giustizia e la pace, nell'aggiornamento della dottrina e della pastorale. Con il riconoscimento autorevole della santità di vita di Giovanni Battista Montini anche la comprensione più serena del suo pontificato riceve una spinta fortissima e aiuta a cogliere meglio parole e gesti di umanesimo integrale che lo hanno segnato fino agli ultimi giorni della sua vita.

Vorrei ricordare uno di questi gesti, apparentemente minore, ma indicativo della finezza umana di questo pontefice radicata nella sua umiltà cristiana.

Era martedì 1 agosto 1978. Come di consueto il Papa si era trasferito a Castel Gandolfo. Cinque giorni dopo, Trasfigurazione del Signore, Paolo VI sarebbe morto. Anche per me era giunto il tempo delle ferie. Ma, come giornalista vaticanista, mi accompagnava una sottile inquietudine che lasciava in bilico la decisione di partire o restare. La visita del Pontefice annunciata quasi a sorpresa alla tomba del cardinale Giuseppe Pizzardo, in località Frattocchie, poteva essere un buon punto di verifica del suo stato di salute. Quel pomeriggio ad attendere l'arrivo del Papa eravamo anche due giornalisti di agenzia spinti dallo scrupolo professionale. Non potevamo immaginare che saremmo così diventati gli ultimi giornalisti a parlare con lui al di fuori dei recinti vaticani.

Ragionavamo tra noi, ma non riuscivamo a cogliere il senso di quella visita che il mondo dell'informazione riteneva di minore interesse: pregare sulla tomba di un cardinale defunto da otto anni, che allora quasi più nessuno ricordava.

Nell'attesa del Papa, un prelato ci ricordò che proprio per le sue aperture coraggiose, Montini aveva avuto a soffrire da quel porporato. La tomba di Pizzardo si trova a poca distanza dalla residenza estiva papale. Tuttavia Paolo VI, negli otto anni seguiti alla sepoltura, mai vi si era recato. Perché - ci chiedevamo noi cronisti - succedeva adesso, dopo l'amarezza provata in maggio per l'assassinio di Aldo Moro e le sue richieste a Dio per l'amico ucciso formulate con la forza biblica di antichi profeti e dopo l'omelia nella solennità dei santi Pietro e Paolo, una sorta di testamento, nella quale il pontefice aveva sottolineato che la sua vita volgeva al tramonto? Indizi sufficienti per sentire che qualcosa stesse per succedere.

Fu così che decidemmo di abbordare direttamente Paolo VI. Cosa che, nella confusione creata nella piccola chiesa al termine della preghiera e delle parole dette dal Papa sulla fede, ci riuscì per un breve momento. Ci avvicinammo e con l'altare tra noi e lui gli chiedemmo il perché di questa visita. Egli rispose sereno e pacato che la riconciliazione era una valore cristiano anche per un Papa. Parole che ci illuminarono a giorno.

Guardammo con altri occhi Paolo VI che ci parve stanco ma come pacificato. Andammo ad aspettarlo alla curva di Frattocchie dove nel rallentamento obbligato della vettura scoperta lo guardammo l'ultima volta incurvato: ci vide e parve darci un saluto di addio. Tanto restammo inquieti che, nonostante la breve udienza generale del giorno successivo nel Palazzo Apostolico e l'incontro del 3 agosto con il presidente Pertini, chiesi con inconsueta insistenza al vice direttore della sala stampa della Santa Sede, in assenza del direttore, conferme sulla salute del Pontefice. Mi rassicurò più volte. Non ne fui del tutto convinto e senza fare la valigia cominciai le ferie domenica 6 agosto restando a Roma. La sera si diffuse la notizia della morte di Paolo VI.

 

(© L'Osservatore Romano  01 agosto 2014)