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Dal Brasile alla Corea

La parola ripetuta

 

 

di Jorge Milia

Francesco ha parlato in Corea, ma anche in Brasile e in Terra Santa. Prima aveva parlato in Argentina. Dai suoi discorsi una parola ritorna più volte, come le onde sulla spiaggia: riconciliazione. La stessa parola che ripeteva quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires. Molti provano sconcerto perché c'è chi non solo non la vuole ascoltare, ma addirittura la rifiuta, rendendo la divisione più profonda e rispondendo al suo appello con quel rancore che genera la frammentazione.

Ma quest'uomo non si è mai rassegnato, ha continuato a ripetere quella parola anche se non volevano ascoltarla. Lo ha fatto allora, lo fa adesso. Lo fa perché sa che solo dopo essersi rincontrata la gente può tornare a costruire, che si tratti di una casa, di una città, di un paese, del mondo o della propria vita. Per riconciliarsi è importante innanzitutto perdonare se stessi, per poter poi perdonare l'altro e costruire insieme a partire da uno sforzo comune. Noi argentini, che non abbiamo mai saputo perdonare noi stessi, difficilmente potremo farlo senza prima percorrere un lungo e doloroso cammino di rispetto reciproco.

Il tempo e le circostanze hanno messo quel cardinale là dove oggi è, e da lì ha ripetuto più volte la stessa parola ovunque si è recato: riconciliazione. Prima in Brasile, poi in Terra Santa, in Corea e tante volte dal Vaticano o in Italia. In Papa Francesco ci sono elementi che indicano una rotta, non visibile, ma spirituale. In un certo senso il cammino non esiste, a esistere è solo il punto di arrivo, l'obiettivo finale. Il cammino - come diceva un poeta a lui caro, Antonio Machado - si fa camminando.

La riconciliazione ha come base l'esistenza di una relazione fraterna che si è rotta. La Corea ne è un segno. Uno stesso popolo diviso a metà dove alcuni non si accontentano dei propri trionfi ma sembrano aver bisogno anche del fallimento degli altri per sentirsi bene, mantenendo così l'unica impresa che funziona a partire dal rancore: la guerra. La riunificazione è per il popolo coreano una ferita aperta che non si può rimarginare senza riconciliazione. Ma questa riunificazione non è diversa da quella di cui hanno bisogno altri popoli.

Sebbene dal punto di vista semantico guerra non sia il contrario di riconciliazione, lo è invece dal punto di vista pratico. Francesco si è recato in un'area di conflitto. In una zona dove sessantuno anni fa venne firmato un armistizio affinché non ci si continuasse a uccidere. Poi il nulla: la minaccia costante, le ripetute intimidazioni, l'inquietudine nel mantenimento della pace, temendo sempre la reazione imprevista dell'altro. È stato questo lo scenario scelto da Francesco per parlare di riconciliazione, per aprire la mano disarmata di fronte agli altri. Quella mano di cui non si può avere paura, mano aperta che aspetta quella dell'altro, mano che non è vuota, ma colma di pace.

I cattolici, i cristiani, i non cristiani, tutti coloro che in qualche modo seguono il Papa, guardano alle crisi in Ucraina, in Medio oriente, in Africa e pensano che Francesco non sia ascoltato. Ma in questo mondo globalizzato, al di là della divisione geografica, l'oggetto finale della salvezza continua a essere l'uomo, ed è l'uomo che Francesco invita alla riconciliazione. Probabilmente molti non riescono a capire la pazienza del seminatore, per il quale la parola non è un ordine ma un seme. Occorre attendere perché nasca e porti frutto.

 

(© L'Osservatore Romano 12 settembre 2014)